Potrebbe essere che uno dei motivi per cui ancora non ho visto la Corazzata Potemkin di Ejzenstejn abbia a che fare con la famosa battuta di Paolo Villaggio in uno dei suoi film: quella della ‘cagata pazzesca’. Una sottile, infida capacità di persuadermi della eventuale noia che potrebbe dare tale visione deve essere riuscita ad insinuarsi in me nel corso degli anni, rendendomi pigro all’idea. E mi impaurisco al solo pensiero di esser stato traviato a tal punto, visto che non ho di certo problemi aprioristici coi film lenti e coi film d’autore. E ne sorrido.

 La scorsa domenica ho letto sul domenicale del Sole 24 Ore il trafiletto chiamato “Il graffio” (in genere assai gustoso), che è una mini-rubrica in cui viene settimanalmente preso di mira qualcosa/qualcuno in ambito culturale, con una certa causticità. Ebbene: domenica 11 novembre si prendeva di mira Villaggio, che in giro oggigiorno ha uno spettacolo dal titolo: “Cagata pazzesca”. L’articoletto chiudeva così: “Non sarebbe ora di ravvedersi, di rimediare a una battuta tanto felice quanto irresponsabile, che ha fatto più danni alla cultura di tutti i cine-panettoni realizzati da allora? Non sarebbe ora di spiegare che la Corazzata Potemkin è un capolavoro assoluto, ma che ogni grande opera d’arte esige anche un minimo sforzo intellettuale?”. Sottoscrivo, sulla fiducia, e vedo di darmi da fare a guardare il capolavoro in questione.

Rimanendo in Russia: mi piacque enormemente “Madre e figlio”, di Alexander Sokurov, il vincitore del Festival di Venezia dello scorso anno con il “Faust”. Lo vidi a una retrospettiva a cura di Enrico Ghezzi a lui dedicata, un po’ di anni fa, a Torino. Una emozionante cronaca della lenta morte di una donna in età avanzata, che il figlio accompagna minuto dopo minuto in un contesto visivo-paesaggistico dall’intensità sublime (la vicenda si svolge in qualche campagna della smisurata Russia, dalle parti di qualche mare). La natura viene ripresa nella sua magnificenza e nella sua presenza imperturbabile, e, come in Ran di Akira Kurosawa, ogni frammento che la registra è davvero un quadro (viene messa in atto una tipologia di ripresa con lenti deformanti, che restituisce una atmosfera fuori dal tempo). In tale cornice l’amore che lega madre e figlio lo si rintraccia in ogni piega del viso, in ogni centimetro del corpo empaticamente coinvolto, in ogni singhiozzo, in ogni sospiro, e poche sono le parole che servono. E’ di una lentezza inesorabile, ma talmente profonda da avvincere e – letteralmente – commuovere. I ben disposti, ovviamente.

Ho visto pochi giorni fa altri due film che “accompagnano” protagonisti e spettatori (sempre della categoria dei ben disposti) nel lento percorso che ha nella morte il suo epilogo: “Amour”, di Michael Haneke, e “Oltre le colline”, di Christian Mungiu. Il secondo mi è piaciuto tantissimo, il primo mi è piaciuto tanto.

“Amour” è, a tutti gli effetti, un film molto simile, negli intenti, a “Madre e figlio”, poiché ciò che si è chiamati a visionare è la lenta progressione verso la sua fine della protagonista femminile (Emmanuelle Riva, bravissima) sostenuta dal marito (Jean-Louis Trintignant, impressionante): null’altro che ciò. All’insegna dell’amore al suo climax. E la profondità della rappresentazione dei sentimenti in gioco lo rende assai bello, facendo toccare con mano l’essenza di qualcosa di molto raro nei codici espressivi odierni, veloci, superficiali, spettacolari: l’arte.

“Oltre le colline” è stato premiato con la palma d’oro a Cannes per la sceneggiatura. Due ore e mezza di un crescendo mozzafiato che scorre crudamente sino alla morte della protagonista, con il poco o nulla della desolazione del paesaggio (una Romania grigissima) e della vita monastica (ho letto non molto tempo fa il libro “Un eremo non è un guscio di lumaca”, di Adriana Zarri, suora laica che scelse di fare l’eremita, e in tante privazioni del monastero del film ho ritrovato lo stesso sapore, forse – ma solo forse – affascinante, sicuramente durissimo, che si provava nel suo resoconto della vita solitaria). Lo scopo di questo film è più variegato rispetto agli altri due, poiché contempla le tematiche dell’amore (verso le persone e verso Dio) e della religione senza avere come scopo unico e diretto l’evoluzione del percorso ineluttabile; ma il finale, in ogni caso, porta alla morte di una delle due protagoniste. Due ore e mezza scivolate via senza accorgermene (ma non è il termine giusto “scivolate”, ovviamente), perché la tensione che lo permea dall’inizio alla fine prima travolge e poi inchioda. Ho particolarmente gradito l’assenza di giudizi in una storia che in mano ad altri ne avrebbe probabilmente avuti, secondo me rovinando in parte il gradimento.

Anche io ho pensato qualche anno fa a un testo che mi accompagnasse con l’immaginazione nei pressi dell’evento ultimo, per poter prefigurare, nel caso di un vis a vis consapevole con Lei e non di un Suo malefico agguato, un qualche possibile atteggiamento da adottare cercando di rifuggire i luoghi comuni. Mi ritrovai a pensare al fascino del saperci arrivare con una sorta di impassibilità neutra, priva di qualsiasi tipo di sentimento: non la rivalsa, non il timore, non l’orgoglio, non il terrore, non la sbruffonaggine, non la speranza. Nulla. LasciarLe fare il suo dovere funereo, restando in attesa. E giustamente so che non ne sarò capace quando toccherà a me.

Ps: mi è sempre assai piacevole ringraziare chi gentilmente lascia commenti preziosi e chi le sue silenziose dimostrazioni di apprezzamento. L’ultimo post, dall’argomento fuori moda e sommesso, ne ha generate tante, e ne sono onorato.

L’uscita di scena

“Con un sorriso di mestizia sopita

io vorrei dirLe: questa è la mia vita.

E con un gesto bello e naturale

abbandonare il corpo e stare ad aspettare”

testo: Cristiano Godano
musica: Cristiano Godano, Luca Bergia, Riccardo Tesio
dall’album “Senza Peso”
(C) 2003

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