Nello spazio di un decennio gli Stati Uniti supereranno l’Arabia Saudita diventando così il primo produttore mondiale di petrolio. Negli anni successivi, il trend proseguirà senza sosta consentendo infine agli Usa di trasformarsi in esportatore netto e di conquistare l’indipendenza energetica. È la previsione più significativa contenuta nel rapporto annuale “World Energy Outlook 2012” pubblicato oggi dall’Agenzia Internazionale dell’Energia (International Energy Agency – IEA). Il fenomeno implicherebbe importanti conseguenze sia sul piano geopolitico che sul fronte della bilancia commerciale. Secondo gli analisti di HSBC, citati dal Financial Times, la riduzione del 25% delle importazioni petrolifere negli Usa garantirebbe un risparmio di 85 miliardi di dollari, quasi un quinto del deficit complessivo misurato lo scorso anno (466 miliardi).

 Ad alimentare la grande corsa americana si sono sia le politiche di efficienza energetica perseguite nel settore trasporti sia lo sviluppo di nuove tecnologie estrattive nel comparto del petrolio e del gas. Un fenomeno, quest’ultimo, che contrasta e non poco con le strategie di sostenibilità ambientale che si traducono nello sviluppo delle rinnovabili, da sempre una bandiera della riconfermata amministrazione. A trainare l’aumento della produzione energetica c’è infatti l’utilizzo sempre più diffuso di una combinazione di tecniche di estrazione verticale, orizzontale e di hydrocracking tramite l’iniezione in profondità di acqua o altre sostanze ad altissima pressione. Questo sistema, utilizzato prevalentemente per l’estrazione del gas ma oggi esteso anche al petrolio, ha suscitato molte perplessità per via del suo forte impatto ambientale inducendo alcuni Paesi, tra cui la Francia, a vietarne la pratica. Ma molti, al tempo stesso, giudicano l’operazione particolarmente promettente di fronte alla possibilità di raggiungere i giacimenti petroliferi e gassosi sepolti nelle rocce, il cosiddetto shale gas o gas da scisti.

Secondo le cifre fornite l’anno scorso dalla Us Energy Information Administration, si stima che le riserve di questo gas non convenzionale ammontino negli Usa a 24.400 miliardi di metri cubi, contro i 7,7 di gas naturale tradizionale. In Cina si arriverebbe addirittura a 36,1 miliardi (contro i 3 circa di gas naturali) ma le stime risultano molto promettenti anche per l’Argentina (21,9), l’Australia (13,7), il Sudafrica (13,7) e la Polonia (5,3).

Proprio la crescita della domanda del gas rappresenta l’elemento costante dei possibili scenari ipotizzati dal rapporto IEA, pur a fronte di significative differenze tra le diverse aree geografiche. “Cina, India e Medio Oriente mostrano una crescita sostenuta”, si legge nell’anticipazione del rapporto. “Un sostegno politico attivo e riforme normative spingono al rialzo i consumi cinesi che si portano da circa 130 miliardi di m3 nel 2011 a 545 miliardi di m3 nel 2035. Negli Stati Uniti, i bassi prezzi e l’abbondanza di offerta fanno sì che il gas diventi il combustibile dominante nel mix energetico attorno al 2030, superando il petrolio. L’Europa impiegherà invece circa un decennio prima che la domanda di gas torni ai livelli del 2010”.

Nel quadro principale ipotizzato dagli osservatori IEA, la domanda mondiale di energia aumenterà di oltre un terzo entro il 2035, a causa soprattutto della spinta di Cina, India e Medio Oriente, trascinando al rialzo la richiesta di risorse idriche (necessarie per la generazione elettrica, l’estrazione di gas e petrolio, l’irrigazione delle colture del comparto biocarburanti) che dovrebbe crescere ad un tasso doppio rispetto a quello della domanda di energia. Nell’area OCSE i consumi energetici, rileva ancora la IEA, aumenteranno di poco “anche se si assiste ad un pronunciato spostamento dal petrolio e dal carbone (e in alcuni paesi dal nucleare) al gas naturale e alle fonti rinnovabili”.

Proprio lo sviluppo delle rinnovabili rappresenta per la IEA un’altra certezza. In primis c’è l’accoppiata costituita dalla riduzione dei costi delle tecnologie (fotovoltaico etc.) e dall’aumento dei prezzi dei combustibili fossili (e dei crediti di emissione della CO2). In secondo luogo pesa in modo particolare il boom degli incentivi il cui valore, ipotizza l’agenzia, passerà dagli 88 miliardi di dollari registrati l’anno scorso ai 240 miliardi del 2035.

Il tutto, ovviamente, considerando anche le scelte politiche dei governi. “La Cina si è posta l’obiettivo di ridurre del 16% la sua intensità energetica entro il 2015; – ricordano i ricercatori – gli Stati Uniti hanno adottato nuovi standard di efficienza volti ad ottimizzare il consumo di carburanti; l’Unione Europea si è impegnata nella riduzione del 20% della sua domanda di energia entro il 2020; e il Giappone mira a ridurre del 10% i suoi consumi elettrici entro il 2030”.

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