Risale al 2009 una delle pagine tra le più tristi per il diritto all’autodeterminazione delle donne in Italia, quando fu approvata alla Camera la mozione Buttiglione sulla moratoria internazionale dell’aborto come mezzo per limitare le nascite.

Quel testo, impregnato di retorica pro life, impegnava il governo italiano a sostenere una risoluzione delle Nazioni Unite ‘che condanni l’uso dell’aborto come strumento di controllo demografico ed affermi il diritto di ogni donna a non essere costretta o indotta ad abortire’. Stesso procedimento, con solerzia impressionante, era già stato avviato dall’Udc al Parlamento europeo. Esplicito nell’intento, Buttiglione allora dichiarò: ”Siamo tutti d’accordo che l’aborto è comunque un male, ma ci dividiamo sempre tra chi è per la vita e chi è per la scelta. E’ ora di contrastare tutti insieme chi nel mondo è sia contro la vita sia contro la scelta”.

Era la vittoria di uno dei movimenti più controversi dell’oscurantismo cattolico: l’Armata Bianca.

Uno degli obiettivi di questo potente movimento ecclesiale, fondato nel 1973 dal cappuccino Padre Andrea D’Ascanio, (braccio destro di Padre Pio), è da sempre la lotta contro quello che nel sito del movimento dal nome così pacifico, alla voce ‘vita’, è definito come ‘il più grande distruttore di pace nel mondo: l’aborto’.

Oggi, a distanza di qualche anno e dopo non poche fatiche da parte dei movimenti che sostengono e difendono l’applicazione della legge 194, le carte si rimescolano, e il Consiglio d’Europa accoglie il ricorso della IPPFN EU che denuncia il numero impressionante di obiettori nel nostro paese: oltre il 70%, dato che mette a rischio l’applicazione di una legge dello Stato.

Ma la notizia più sconvolgente che emerge grazie alla vittoria del network europeo, appoggiato nel nostro paese dalla Laiga (Libera associazione ginecologi per l’applicazione della l.194) è un’altra: il rischio non è solo il non garantire alle donne un servizio previsto per legge, ma che a breve scompaiano le professionalità in grado di soddisfare la richiesta. Sono anni che le poche ginecologhe e i loro colleghi che praticano nelle strutture pubbliche l’intervento denunciano che si sta esaurendo, con l’età e il pensionamento, la presenza negli ospedali di chi sa le tecniche e le tramanda. A Genova, durante la presentazione del bel testo di Chiara Lalli C’è chi dice no , nel quale si racconta la storia del mutamento antropologico e politico del senso dell’obiezione di coscienza, le docenti mediche presenti mettevano in guardia,  qualche mese fa, proprio su questo rischio.

Pochi anni fa mi scrisse una donna per raccontare una esperienza che oggi rischia di tornare di tragica attualità: “Vorrei raccontare una mia esperienza terribile la cui conoscenza possa essere utile alle nuove generazioni. Anno 1970; io e il mio convivente avevamo deciso di avere un figlio, non eravamo sposati. Ebbi un aborto spontaneo e fui ricoverata in clinica per un raschiamento, tutto alla luce del sole. Dopo un po’ fui invitata in questura dove mi dissero che ero sospettata di procurato aborto. Dopo aver tentato confusamente di ‘giustificarmi’, la poliziotta mi comunicò che la richiesta di accertamenti proveniva dal medico provinciale. Venni a sapere che il medico provinciale mandava tutte le nubili che avevano abortito in questura  d’ufficio. Mi dissero che era una tradizione. Non mi dilungo, ma mi è ritornata alla mente quell’esperienza atroce, perché temo che possano ritornare quei giorni”.

Già: se in pochi anni si esaurisse la presenza di chi pratica Igv nelle strutture pubbliche chi impedirebbe il ritorno di comportamenti di questo tipo? 

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