Occupandomi di nomadismo digitale, ho molto riflettuto su quali siano le convinzioni e i ragionamenti errati sul concetto di lavoro che sembrano impedire a noi tutti di sfruttare nuove opportunità. Mi sto convincendo che siano dei retaggi culturali molto forti, che ci impediscono oggi di pensare a nuove soluzioni possibili per superare la crisi del lavoro, provenienti da un recente passato in cui le opportunità di scelta professionale erano notevolmente inferiori rispetto a quelle attuali.

Tra le più vecchie e radicate convinzioni c’è quella che un impiego è più sicuro di un lavoro autonomo e che per intraprendere un’attività servano un’idea sicura e tanti soldi. In concreto pensiamo che non si possa iniziare a sviluppare un’idea se prima non sappiamo esattamente dove ci porterà se non abbiamo un business plan rigorosamente scandito.

Questi concetti sono non solo superati, ma addirittura ribaltati, nell’era delle start up. ‘Start up’ è ormai uno di quei termini entrato nel nostro linguaggio, è possibile sentirlo echeggiare nelle notizie dei tg serali, spesso usato in modo inappropriato e con un certo distacco dai media tradizionali, che lo confinano in un mondo abitato da nerd e piccoli geni, insomma non un’opportunità concreta che tutti possono cogliere e sfruttare per rilanciare sul proprio futuro professionale.

Ed invece start up significa letteralmente “avvio” e rappresenta oggi un vero e proprio movimento che parte dal basso. Quello degli startupper, che non cercano un lavoro, ma lo creano, lo inventano, lo progettano, mettendo in gioco tempo ed energie personali per fare della propria abilità, del proprio know how o di un’idea originale il proprio lavoro.

La start up infatti non è un’azienda già strutturata ma un’organizzazione temporanea che è ancora alla ricerca di un modello di business, necessario per far diventare l’idea un prodotto o servizio che funzioni sul mercato. Superare la logica del posto fisso o del tradizionale modello imprenditoriale è davvero possibile in Italia? Cosa succede nel nostro Paese, oltre alla migrazione, seguita dal successo oltreoceano, delle start up made in Italy?

Nel Decreto Legge su “Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese” sono finalmente disciplinate le ‘start up innovative’, individuate per avere come oggetto sociale esclusivo lo sviluppo, la produzione e la commercializzazione di prodotti o servizi innovativi ad alto valore tecnologico (Sezione IX Misure per la nascita e lo sviluppo di imprese start-up innovative, Artt. 25-32).

Sono disciplinate anche le start up a vocazione sociale, per i settori educazione istruzione e formazione, tutela dell’ambiente, valorizzazione del patrimonio culturale, turismo sociale, formazione universitaria e post-universitaria, servizi culturali. Sono previsti incentivi e finanziamenti, non solo per i soci, ma anche per chi decide di investire in una start up (art. 29, dall’Irpef si detrae un importo pari al 19% della somma investita dal contribuente nel capitale sociale di una o più start-up innovative).

Un primo passo e un segnale incoraggiante, ma sono ancora molti i paletti per essere accreditati come start up e accedere alle agevolazioni e ai finanziamenti statali, come il sostenere spese in ricerca e sviluppo o essere titolare o licenziatari di almeno una privativa industriale relativa a un’invenzione afferente all’oggetto sociale e all’attività d’impresa. Insomma, si sente ancora odore di ‘impresa tradizionale’ e forse non sono poste le giuste basi per una Silicon Valley italiana. Voglio però pensare che non sia molto lontano il futuro delle start up in Italia e voglio ben sperare che le ultime misure normative non siano che il primo passo verso l’innovazione non solo tecnologica, ma anche sociale e culturale del nostro Paese.

Per approfondire l’argomento ecco il rapporto della Task Force sulle start up istituita dal Ministero dello Sviluppo Economico

di Alberto Mattei

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