I pirati in questi giorni hanno scosso la Germania. Non i pirati del Piratenpartei, il partito che ha preso molte simpatie e voti alle ultime elezioni tedesche. Mi riferisco ai pirati dei mari, quelli veri, e in particolare ai dieci pirati somali condannati la scorsa settimana da un tribunale di Amburgo a pene tra i due e i sette anni di carcere.

I media tedeschi hanno dedicato molto spazio a questo Piraten-Prozess, “il primo dai tempi del Medioevo” in Germania. Due anni di processo a ritmi sostenutissimi: 105 udienze, migliaia di evidenze documentali, quattro giudici, venti avvocati, due procuratori, dieci altri impiegati del tribunale dedicati al processo, numerosi esperti chiamati a riferire su aspetti come le condizioni della Somalia devastata dalla guerra, dieci accusati di cui tre (considerati) minorenni e quindi processati con il rito minorile. Difficoltà inaudite (non solo linguistiche, cui hanno provveduto tre traduttori) nella comunicazione con gli imputati. Quando sei nato? Nella stagione delle piogge. Dove sei nato? Sotto un albero. Già solo per stabilire le loro età si è dovuto ricorrere a esami radiografici per analizzare lo sviluppo di certe ossa (l’osso carpale, se vi dice qualcosa, pare che indichi l’età di una persona con una certa approssimazione).

Per non parlare dei costi del processo: un milione di euro stimati fino ad ora. Il che, insieme alle difficoltà sopra citate, ha da lungo tempo innescato il dibattito ad Amburgo e nel resto della Germania se abbia senso trattare casi del genere con gli strumenti del diritto penale interno. I commentatori notano infatti che le vite di queste persone sono talmente estranee e lontane dalla realtà tedesca, che pretendere di giudicare le loro azioni da parte di un tribunale in Germania è alquanto problematico. Eppure il processo s’aveva da fare, e così, pur tra mille difficoltà, è andato avanti.

Perché il processo s’aveva da fare? Non poteva la Germania lasciar perdere di fronte a tante complicazioni? No, non poteva, legalmente parlando. La nave che fu attaccata il 5 aprile 2010, 530 miglia ad est del Corno d’Africa mentre faceva rotta da Gibuti a Mombasa in Kenya, batteva bandiera tedesca. Il che, per il diritto internazionale, significa che il fatto è come se fosse avvenuto sul suolo tedesco. I pirati sono stati colti con le mani nel sacco; o meglio con le pistole (e i kalashnikov) fumanti in mano dagli uomini della fregata olandese accorsa in soccorso della nave tedesca. Peraltro quella fregata olandese si trovava in quei mari proprio come membro dell’operazione dell’Unione europea antipirateria, c.d. “Operazione Atalanta”.

La pirateria è un crimine internazionale. È il più vecchio crimine internazionale, quello dal quale si può dire che tutto il diritto penale internazionale è stato originato. Il pirata è stato infatti il primo hostis humani generis, il primo nemico dell’umanità. È per punire e contrastare efficacemente la pirateria – un crimine commesso in alto mare, quindi difficile da perseguire a livello statale – che le prime convenzioni internazionali in materia penale sono state sottoscritte: già il trattato di Vestfalia (1648) condannava la pirateria. Oggi in particolare la convenzione Onu sul diritto del mare (entrata in vigore nel 1994) prevede norme precise per la repressione della pirateria in diritto internazionale.

Ai sensi di tale convenzione tutti gli Stati devono prestare la massima cooperazione nella repressione della pirateria in alto mare o in ogni altro luogo al di fuori delle giurisdizioni nazionali. In effetti gli Stati sono obbligati a perseguire i pirati a prescindere dalla loro competenza territoriale, in base al principio della giurisdizione universale (che prescinde dal luogo di commissione o dalla nazionalità degli autori del crimine), poiché la pirateria offende tutta la comunità internazionale. Il Kenya si era impegnato a perseguire i casi di pirateria nelle sue corti, a fronte di pagamenti da parte dei paesi occidentali, ma ha recentemente deciso di recedere dal trattato internazionale che lo obbligava in tale senso. I singoli paesi di nazionalità delle navi assaltate nel Corno d’Africa si sono ritrovati quindi di fronte alla necessità di procedere direttamente contro i pirati somali, seppur a migliaia di kilometri di distanza dal luogo del crimine. La Germania quindi doveva procedere. I dieci somali sono stati ivi trasportati per essere processati e sono rimasti in custodia cautelare in carcere. Il processo di Amburgo è arrivato alla sua conclusione venerdì scorso. Le pene inflitte sono appunto tra i due, per i tre minorenni (che sono già stati liberati), e i sette anni di carcere.

In molti in Germania avevano sperato in condanne più lievi. Una reazione ben diversa dall’atteggiamento americano, dove pure si sono tenuti dei processi contro i pirati somali. Nel settembre dello scorso anno il tribunale di New York ne ha condannati due all’ergastolo. Certo i fatti per cui si procedeva erano più gravi di quelli di Amburgo: i pirati a New York erano accusati della morte di due cittadini americani durante un attacco in mare aperto. Al contrario non vi è stato alcun morto o ferito nel corso dell’attacco oggetto del processo di Amburgo.

In ogni caso, il procuratore statunitense all’esito della condanna all’ergastolo si era dichiarato soddisfatto: “L’unico bottino che sono riusciti a portare a casa i due è stata una vita dietro le sbarre”. E aveva notato che “la pirateria è un flagello che minaccia il commercio e la vita di cittadini di intere nazioni”. Ben vengano, quindi, severe condanne che abbiano effetto deterrente, per mostrare che azioni del genere possono portare a conseguenze che durano per tutta la vita. 

Eppure è proprio l’effetto deterrente di tali condanne che in Germania in questi giorni viene messo in discussione. In molti sollevano dubbi che un processo condotto in Germania, in tedesco, a migliaia di kilometri di distanza, possa avere il benché minimo effetto in una Somalia affamata e tormentata dalla guerra. Ci si chiede inoltre quale possa essere l’effetto risocializzante (che deve essere intrinseco ad ogni condanna penale) nei confronti di pirati somali. E poi risocializzazione dove, in Germania o in Somalia? Quel che sta avvenendo infatti è che alcuni dei condannati non hanno intenzione, né le condizioni per tornare nel loro paese di origine. Specie i minorenni rimarranno con ogni probabilità in Germania, dove hanno chiesto asilo; forse per alcuni di loro inizierà una vita migliore. Alcuni di loro, passati i primi momenti di paura (in cui temevano di essere torturati o addirittura uccisi dai giudici tedeschi) hanno già dichiarato che è stato un colpo di fortuna essere arrestati e trasferiti in Germania. Alcuni notano che si sta assistendo al paradosso che l’espansione del riconoscimento dei diritti umani (quindi anche dei pirati) nelle nostre democrazie occidentali sta minando la lotta ad un grave  crimine qual è  la pirateria internazionale. Più che i processi pare che servano azioni di contrasto sui mari; le conseguenze in termini di diritto sono deboli. Anche se diversi processi sono stati celebrati negli ultimi anni, la maggior parte dei pirati somali non vengono caricati su un volo intercontinentale per essere sottoposti a processo, ma bensì liberati in Somalia.

Rimane la domanda se la giustizia di un paese occidentale può tendere alla rieducazione di un cittadino di un paese così diverso e lontano come storia, condizioni, cultura e bisogni? Gli osservatori che hanno seguito questi due anni di udienze hanno parlato di scontro di civiltà. O per lo meno di mondi che si scontravano nell’aula del tribunale di Amburgo. “Una maratona”, “una costosa farsa” è stata definita, che nessuno ha intenzione di ripetere. Le autorità giudiziarie di Amburgo hanno costituito un gruppo di lavoro che adesso analizzerà il processo per trarne le dovute conseguenze per futuri casi simili. E già la gente si chiede: ma quali casi simili, mica vorremo davvero di nuovo fare un processo ai pirati? A che pro?

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