Il dibattito presidenziale di lunedì notte – l’ultimo prima del voto del 6 novembre – s’è chiuso con un chiarissimo vincitore. Contrariamente a quanto segnalato dagli “instant pools” realizzati appena calato il sipario, tuttavia, il suo nome non è Barack Obama. E neppure è Willard Mitt Romney, lo sfidante repubblicano, da quei medesimi sondaggi dato come piuttosto netto ed alquanto mogio perdente.  No: il vero trionfatore della serata è stato a tutti gli effetti proprio lui: George W. Bush. L’invisibile, l’innominabile George W. Bush, il grande “desaparecido” dell’iconografia repubblicana, lo spazio vuoto nella foto di famiglia della destra americana. O – se rimirato dall’altro lato della barricata – il raccapricciante spettro, lo spaventapasseri che i democratici usano di norma esporre, quando attaccati, per riaccendere l’orrore d’un passato che non cessa d’essere presente.

Lunedì notte nessuno – né Romney, ovviamente, né Obama, né Bob Schieffer, lo stagionato moderatore del dibattito – ha in realtà pronunciato il suo nome. Nessuno l’ha chiamato. Nessuno l’ha evocato, incensato, biasimato o ripudiato. Eppure proprio lui ha, come un’immanente forza, guidato le parole di tutti. Perché proprio a lui, a George W. Bush (ed ai “neocons” che, a suo tempo, tirarono i fili che lo muovevano) appartiene la politica che – con molto rumorose, ma molto poco sostanziali differenze d’accenti – i due duellanti hanno esposto ieri in quel di Boca Ratón.

È stato uno strano dibattito, quello consumatosi in Florida. Per decisione dell’apposita commissione (una decisione concordata tra le parti) il confronto doveva essere esclusivamente dedicato alla politica internazionale. Ma – ma evidentemente consci dei problemi che oggi più angustiano gli elettori – tanto Obama, quanto Romney, hanno approfittato d’ogni spiraglio per spostare il discorso in direzione della politica interna e dell’economia. Schieffer chiedeva in che modo pensassero di far fronte alla crescita della potenza cinese? Romney istantaneamente rispondeva riproponendo il ritornello dei 12 milioni di nuovi posti di lavoro che un suo non meglio precisato piano (da molti economisti definito “fantasia allo stato puro”) è destinato senza fallo a creare, essendo lui presidente, nei prossimi quattro anni. Con Obama che, da par suo, gli faceva immediata e disdegnosa eco rammentando come un suo piano (questo reale, non scritto nelle nuvole) avesse in questi molto vilipesi quattro anni salvato l’industria automobilistica americana (con relativi posti di lavoro) dalla bancarotta che Romney, in sintonia con l’intero establishment repubblicano, era andato al contrario auspicando.

Ogni volta, tuttavia, che di politica internazionale non hanno potuto non parlare, entrambi i contendenti si sono mossi all’interno della cornice – quella della “war on terror”, della guerra al terrorismo – che George W. Bush ed i “neocons” avevano disegnato dopo gli attentati dell’11 settembre 2001. Obama mostrando il cadavere di Osama bin Laden – e tutti quelli in questi anni accumulati grazie alla politica di omicidi “selettivi” attuata attraverso i “drones”, gli aerei teleguidati – come la più succulenta preda nel suo carniere presidenziale. Romney insistendo – con argomentazioni dal New York Times definite, “confuse e contraddittorie” – per un aumento (alla faccia della politica di riduzione del deficit pubblico) della spesa militare, sempre in chiave “antiterrorista”, ma in realtà improntata ad una logica da vecchia “politica delle cannoniere”.

Le cronache ci dicono oggi che Romney ha perso il dibattito. E che l’ha perso proprio quando ha lamentosamente segnalato come la marina Usa abbia oggi meno navi di quante ne avesse nel 1916, in questo modo regalando ad Obama la battuta che ha, di fatto, deciso le sorti del confronto. “Se è per questo – gli ha risposto il presidente, rammentandogli come la tecnologia avesse, nell’ultimo secolo, modificato il concetto di forza militare – le nostre forze armate hanno oggi anche meno cavalli e meno baionette di quante ne avessero nel 1916…”.

Uno a zero e palla al centro. Anzi, (considerando tutti e tre i dibattiti) 2 a 1 e fischio finale dell’arbitro.  Resta tuttavia un fatto che, al di là dei risultati sanciti dagli “instant polls”,  in questo dibattito, vinti e vincitori hanno, nella sostanza riaffermato l’assoluta priorità strategica di quella che George W. Bush aveva chiamato la prima “Guerra  del XXI secolo”. Non vi è più, è vero – tanto nelle parole del premio Nobel per la Pace Barack Obama quanto in quelle del Romney “moderato” che cerca di vender se stesso in quest’ultima fase della campagna – alcuna traccia della “guerra infinita” che ha regalato al mondo le non ancora rimarginate ferite dell’Iraq e l’Afghanistan. Ma la logica resta la medesima. Ed in questa logica non sembra esservi, allo stato delle cose, che un marginale ed occasionale spazio per un mondo attraversato – ben oltre il permanente pericolo terrorista – da epocali cambiamenti e marcato, nel pieno di una crisi economica globale, dal crescere di nuove forze e nuove coscienze.

Il mondo – il mondo vero – è stato è in realtà il grande assente in questo dibattito dedicato al mondo. Vinca chi vinca il 6 di novembre, un brutto segnale per tutti.

 

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