Oggi pubblico uno stralcio di un’intervista all’antropologa Arianna Cecconi che verrà pubblicata sul numero di dicembre del mensile A rivista anarchica

I sogni vengono da fuori

di Andrea Staid

Conversazione con l’antropologa Arianna Cecconi, dottore di ricerca in antropologia, attualmente assegnista di ricerca all’Università di Milano-Bicocca. Nel 2000-2001 ha svolto ricerca in Italia sui guaritori e sulla medicina tradizionale che si è tradotta nel libro L’acqua della paura, Bruno Mondadori, Milano, 2003. Per Radiotre ha realizzato un ciclo di documentari etnografici. Se sognare è un’attività universale, diverse sono le interpretazioni e il modo di vivere quella metà della vita che passiamo addormentati.

Sognare in pianura è diverso che sognare in cima a una montagna, sognare durante una guerra è diverso che sognare in tempo di pace. Il nuovo libro di Arianna Cecconi, “I sogni vengono da fuori, esplorazioni sulla notte nelle Ande Peruviane”, esplora l’intimo dialogo tra il giorno e la notte, tra la veglia e il sonno, e la continuità che lega i due mondi di cui l’essere umano è cittadino.

Nel tuo lavoro è molto importante il metodo che hai utilizzato: quando si analizzano le culture umane credo sia fondamentale che i mezzi siano strettamente coerenti con i fini della ricerca e nel tuo testo ci parli dell’osservazione della partecipazione, spiegaci cosa intendi e come hai lavorato nelle comunità andine.
Quando ho iniziato a fare ricerca sui sogni nelle comunità andine del Perù, davanti ad alcuni racconti non potevo fare a meno di domandarmi «l’avrà sognato davvero?» e ogni volta che mi facevo questa domanda non potevo che scontrarmi con un’assoluta certezza: non l’avrei mai scoperto. I sogni degli altri non li puoi osservare, eppure è proprio sull’osservazione che si basa la metodologia antropologica, osservare le pratiche, i contesti, le relazioni, i discorsi. Come potevo impostare una ricerca su qualcosa che è, per sua natura, inosservabile? Il lavoro di altri antropologi che hanno cercato di esplorare i sogni è stato ispiratore. Se i sogni degli altri non li potevo osservare, quello che potevo analizzare era da un lato in che modo, perché e in che contesti i sogni venivano raccontanti e le reazioni che provocavano in chi li aveva sperimentati direttamente e in chi li ascoltava. Dall’altro lato, ho cominciato ad analizzare come durante i mesi vissuti nelle comunità andine le persone hanno cominciato a sognarmi e io a sognarle. Che ruolo avevo nei sogni dei comuneros, e i comuneros che posizione occupavano nei miei sogni? Nell’analizzare alcuni sogni potevo riflettere sulla relazione che si stabiliva tra me e gli abitanti dei villaggi andini anche da un altro punto di vista. Questa è quella che ho chiamato un’osservazione della partecipazione onirica.

Se analizziamo il sogno come un oggetto culturale che si tramanda diventa storia, quindi con la tua ricerca apriamo le porte a un nuovo metodo…
I sogni sono sismografi in cui si registrano gli effetti storici nell’intimità degli individui. Questo l’aveva detto una grandissima storica, Charlotte Beradt, che durante il Terzo Reich aveva cominciato a raccogliere i sogni che facevano le persone in Germania, come documenti storici che mostravano i terribili effetti repressivi del regime anche sulla dimensione onirica. Ma a parte questo lavoro di Beradt, la categoria della storia è quasi sempre circoscritta alla vita diurna, come se la storia riguardasse soltanto quello che accade nelle società di giorno. S

ulle montagne andine invece quando i comuneros mi raccontavano episodi accaduti nel loro villaggio, per esempio durante gli anni della guerra, spesso ricorrevano anche a narrazioni di sogni che avevano preceduto quegli eventi o che erano arrivati durante o in seguito. I comuneros consideravano i sogni di quegli anni come un complemento necessario per ricostruire e narrare la storia della guerra. I comuneros sembravano del tutto consapevoli di quello che aveva sostenuto la storica Beradt. Anche i sogni fanno parte della storia. I sogni vengono raccontati non solo in famiglia, ma anche in contesti collettivi, e la storia si ricostruisce e tramanda anche attraverso le narrazioni di sogni.

Un capitolo fondamentale del tuo libro è quello sulla guerra, ce ne parli brevemente tra esperienze diurne e notturne.
Entrambe le comunità in cui ho vissuto sono state molto colpite negli anni Ottanta e Novanta dal conflitto armato tra Sendero Luminoso e l’esercito peruviano. In quegli anni i comuneros raccontano che la notte non era più la temporalità del sonno ma della guerra perché era di notte che i militari attaccavano i villaggi, o in cui i senderisti facevano le rappresaglie. I comuneros quando arrivava il buio spesso si nascondevano sulla montagna, non dormivano nelle loro case, e la guerra stessa viene descritta come uno stato allucinatorio, come un lungo e terribile incubo. Le atrocità della violenza facevano vacillare il confine tra quello che era realmente accaduto e quello che era sognato.

Quando poi la guerra è ufficialmente finita nel 1992, ha continuato a presentarsi nei sogni dei sopravvissuti. Ancora oggi molti comuneros sognano la guerra. Sognano di essere perseguitati, violentati, sognano i familiari desaparecidos che li accusano di averli dimenticati. In molti casi I sogni rappresentano il luogo in cui il trauma della guerra continua a ripetersi. Ma nei villaggi andini ho incontrato anche sogni che curano, sogni grazie ai quali la memoria della guerra viene rielaborata. Ci sono donne che mi hanno raccontato che è grazie ai sogni che continuano a comunicare con i familiari scomparsi, ed è nei sogni che loro le consolano e le esortano a smettere di piangere, e a continuare la loro vita.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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