Il procuratore aggiunto di Roma, Alberto Caperna, è morto ieri sera a Roma, in seguito ad un infarto. Caperna era il responsabile del pool dei reati contro la pubblica amministrazione ed in questa veste coordinava le indagini relative a fatti su corruzione, peculato ed altri. Era titolare dei casi Fiorito e Maruccio.

Alberto Caperna era un gran signore, un gentiluomo, una persona rara e preziosa nel mondo della giudiziaria.

Quando muore un magistrato quasi sempre si leggono sui giornali frasi come questa. Solo chi frequenta come me con una certa assiduità il palazzo di giustizia di Roma può capire la sincerità di questo ricordo di Caperna. Mi ha chiamato Rita Di Giovacchino pochi minuti fa per dirmelo: “è morto Alberto”. Ma Alberto chi? “Caperna”. Io non l’ho mai chiamato Alberto né ho mai preso un caffè con lui. Non so nulla della sua famiglia, della moglie e dei figli. Non l’ho mai incontrato fuori dal perimetro del palazzo di Piazzale Clodio, non era un mio amico eppure la mia reazione è stato di sentirmi subito più solo.

Quando entravo nella sua stanza, quando lo affiancavo nel corridoio mentre camminava con la sua andatura dinoccolata e il ciuffo in disordine era come se prendessi una boccata d’aria fresca. Caperna era diverso. Diverso dalle troppe persone piene di sé, convinte di sapere più degli altri, ambiziose e rampanti che si incrociano nei corridoi di una Procura come quella di Roma. Diverso da noi giornalisti sempre a caccia di un brandello di notizia che gli giravamo attorno come gli squali e diverso dai tanti magistrati che sgomitano per avere una sola delle decine di inchieste delicate che passavano per il suo ufficio, senza che muovesse un dito per averle.

Caperna si è occupato del caso Lusi, di Fiorito, di Verdini, di Berlusconi e di altre decine di indagini. Eppure non sarà per questo che lo ricorderemo tutti. Caperna non era il pm del caso Lusi era quel signore che non alzava mai la voce e che trattava tutti allo stesso modo, il procuratore capo e l’ultimo dei marescialli o dei cronisti di primo pelo. Non c’era una volta che non mi accogliesse con la solita frase: “Lillo 1 minuto”. Tanto che ormai non lo salutavo più con un buongiorno ma con l’indice alzato per dire “un minuto”. Anche perché quasi mai era mai un minuto. Caperna era troppo gentile ed educato per buttarti fuori dalla stanza. E poi bastava chiedergli un chiarimento su una norma, un’interpretazione di un caso delicato e lui subito ci cascava e si sedeva sulla poltrona per spiegare le questioni giuridiche sottese ai casi che affrontava.

Mi ascoltava con il suo sguardo ironico e divertito e mi considerava probabilmente un fanatico giustizialista ansioso di sparare a zero su qualsiasi politico o potente si affacciasse dai suoi fascicoli. Percepiva che il mio modo di intendere il ruolo del pubblico ministero era ben diverso dal suo. Cercavo inutilmente di convincerlo che un’archiviazione di un misfatto è sempre una sconfitta per la giustizia e che lui rappresentava l’ultima trincea, l’ultima difesa contro il malaffare imperante. Mi guardava sorridendo, spingeva la schiena indietro e si accendeva la sigaretta. Poi con l’aria del professore buono prendeva il codice penale e cominciava a sfogliare le pagine lucide e ingiallite per cercare un comma che includesse il fatto che emergeva dalle indagini e che a me sembrava scandaloso archiviare. Dopo aver tentato di adattare questo o quell’articolo al caso in questione, mi guardava come un sarto che aveva cercato inutilmente di ritagliare il vestito per un cliente troppo ciccione e chiosava: dal punto di vista morale sarà pure riprovevole ma questo fatto nel codice non c’è, “non è ricompreso nella norma”, “manca la qualifica soggettiva”, e giù motivando.

Mi illustrava le sue archiviazioni con il piglio di chi prova a spiegare a un infedele la sua religione, pur essendo convinto che non riuscirà mai a convertirlo. Era andata così anche nel caso Agcom-Trani su Silvio Berlusconi. Il pm di Trani aveva trasferito il fascicolo con Berlusconi indagato per minacce a corpo dello Stato alla Procura di Roma e solo grazie a Caperna – che aveva convinto il procuratore capo Giovani Ferrara a non archiviare subito – quel fascicolo era arrivato al tribunale dei ministri con la richiesta (insolita per la Procura di Roma) di proseguire nelle indagini contro il premier.

Dopo mesi e mesi di melina il collegio dei reati ministeriali si era tratto di impaccio derubricando il reato in abuso d’ufficio. La patata bollente e la competenza finivano così alla Procura. Caperna sapeva che era una furbata per lasciargli il cerino in mano ma mi spiegava che non c’erano i requisiti dell’abuso di ufficio e che lui avrebbe archiviato tutto. Io cercavo di ribattere che era un paradosso: entrambi i magistrati, quello ministeriale e quello ordinario, vedevano nel comportamento di Berlusconi un reato. Ma nessuno vedeva il reato di sua competenza. Risultato: il fascicolo sulle pressioni per eliminare Santoro dalla tv pubblica finiva in un nulla di fatto. Caperna mi dava atto dell’assurdità della situazione. Lo chiamava “il paradosso di Marco Lillo” ma cercava di spiegarmi in tutti i modi che non avrebbe mai fatto la richiesta di rinvio a giudizio per un abuso d’ufficio inesistente solo per non lasciare impunita la condotta di Berlusconi. Tra la giustizia sostanziale e quella formale preferiva la seconda, perché includeva la prima.

Lo criticammo anche duramente per quelle scelte ma lui non se la prese mai. E mai avrei pensato di dover rimpiangere quelle chiacchierate appassionate e persino quelle archiviazioni così tanto e così presto.

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