Il vecchio senatore democratico contro l’astro nascente del movimento conservatore. Il campione di operai e piccola borghesia bianca contro il fautore del capitalismo aggressivo di Ayn Rand. Il politico suadente e consumato contro il tecnocrate tutto numeri e power point. Si potrebbe raccontare in molti modi il dibattito di stasera al Centre College di Danville, Kentucky, tra il vicepresidente in carica Joe Biden e il suo sfidante Paul Ryan. Quello che è certo, come ha scritto l’opinionista Roger Simon, è che “vedremo il sangue sui muri”.

I dibattiti tra i vicepresidenti, inaugurati nel 1976, non suscitano di solito grande attenzione nel pubblico e nei media. Questa volta è diverso. Un concorso di circostanze inaspettate ha infatti caricato il confronto Biden/Ryan di una straordinaria tensione e pressione. C’è stata, mercoledì scorso, la clamorosa scivolata di Barack Obama nel primo dibattito televisivo con Mitt Romney. C’è stata la decisa sterzata al centro della campagna di Romney, su politica estera, tasse, immigrazione. C’è stata soprattutto l’ascesa nei sondaggi del repubblicano. Rasmussen Reports lo dà avanti di un punto (48% contro 47%); Pew Research assegna a Romney quattro punti di vantaggio (49% contro 45%). Obama può per il momento ostentare una certa tranquillità. Dei nove più contesi battleground states, soltanto tre – North Carolina, Florida e Colorado – appaiono inclinare verso i repubblicani. Ciò non toglie, come ha detto il consulente democratico Stan Greenberg in un’intervista al Washington Post, che “l’allarme sia suonato” e che a questo punto il presidente non possa più sbagliare. Tutti questi elementi danno al dibattito di stasera un sapore particolare.

La pressione su Biden e Ryan è incredibilmente alta. Biden deve bloccare l’emorragia di voti e fiducia che la prova disastrosa del suo presidente ha provocato nel campo democratico. Il ruolo di Ryan è invece quello di mantenere slancio ed entusiasmo che la campagna repubblicana ha guadagnato negli ultimi giorni. Il compito più difficile è ovviamente quello di Biden che, come ha scritto Steve Kornacki di Salon.com, “deve fare quello che il suo presidente non ha fatto”. E cioè attaccare a testa bassa i repubblicani su tasse, sanità, classe media; sviscerare sin nell’ultimo dettaglio il passato di Romney a Bain Capital; svelare i continui balletti e interessati cambi di posizione dell’ex-governatore del Massachusetts, e il suo malcelato disprezzo per l’America dei più deboli e svantaggiati. “Non escludiamo di affrontare alcuni di questi temi”, dicono ora in modo non ufficiale i collaboratori di Biden. L’anziano senatore, 70 anni, è del resto conosciuto come uno dei più eccezionali “debaters” di Washington.

Secondo David Plouffe, consulente principe di Obama, Biden fu scelto come vice nel 2008 proprio per le sue straordinarie doti di oratore. Sono due i toni che gli si conoscono. Quello avvolgente, raffinato, suadente, da “Gentleman Joe”, che Biden mise in campo nel dibattito con Sarah Palin nel 2008. Per non apparire aggressivo nei confronti di una giovane donna, Biden allora rispolverò le cadenze flautate imparate in decenni di lavoro al Congresso (è stato, tra l’altro, presidente delle Commissioni giustizia ed esteri del Senato). Biden può però velocemente trasformarsi in “Scranton Joe”, dal nome della città della Pennsylvania dove è nato: un implacabile mastino della politica, pronto a ribaltare gli avversari come calzini, capace di rispolverare i toni populistici, beffardi, distruttivi che le sue origini popolari gli hanno insegnato. Probabile che stasera, con Ryan, scelga la seconda strada. “I democratici sanno una cosa: che Biden ha sangue nelle vene”, ha detto ancora Steve Kornacki, prefigurando una prova tutta all’attacco di Biden. I democratici però sanno – e temono – anche un’altra cosa. Biden è un conclamato gaffeur. “Joe è intelligente – ha detto un altro vice-presidente, Dan Quayle -. Ma fa degli errori quando abbandona la sceneggiatura stabilita”. Il rischio è appunto questo: che Biden abbandoni la sceneggiatura e la dica grossa. A 42 anni, Paul Ryan è invece uno dei politici più noti e rispettati dal movimento conservatore Usa. Si dice che i colleghi repubblicani della Camera ne apprezzino soprattutto le doti intellettuali e di analisi. Ryan è l’autore della controversa proposta di budget dei repubblicani, che prevede la sostituzione del Medicare con voucher federali e la parziale privatizzazione del sistema pensionistico. Romney lo ha scelto proprio per queste sue doti di guida e capacità di unificare la destra americana.

Oggi Glenn Beck, radio-host conservatore, spiega che Ryan arriva al dibattito armato di “fatti, argomenti sostanziosi e, francamente, migliori capelli e addominali di Biden”. Anche Ryan mostra però debolezze e punti critici. “Si trova a proprio agio con grafici e power point”, ha spiegato Amy Walter di Abc. Questa smania per i numeri potrebbe rivelarsi poco produttiva. I suoi consulenti, da giorni, gli chiedono di limitarla il più possibile, per non finire impantanato in sottigliezze difficilmente comprensibili dal grande pubblico. Un altro problema potrebbe essere il passato radicalmente liberista di Ryan. La retorica su “makers e takers”, i tanti che prendono e i pochi che producono, uno dei pilastri del suo pensiero, può potenzialmente allontanare settori importanti della classe media impoverita. Se i repubblicani sperano che la personalità giovane e prorompente di Ryan abbia comunque la meglio, i democratici guardano al passato per trovare conforto. Nel 2004 l’allora un presidente in carica, George W. Bush, fallì clamorosamente nel primo dibattito televisivo con John Kerry. Toccò al vicepresidente, l’anziano Dick Cheney, fare a pezzi il più giovane John Edwards. Cheney attaccò Edwards per il suo assenteismo al Congresso. “Senatore – gli disse – questa è la prima volta che ho il piacere di vederla”.

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