pompeiQuando parlo con i miei colleghi universitari francesi o americani dei ‘tagli alla cultura’ italiani, la domanda più ricorrente è: «cosa hanno chiuso?». E qui la faccenda si fa particolarmente penosa, perché si tratta di spiegare loro che l’ipocrisia italica non permette quasi mai di sopprimere davvero qualcosa – sarebbe quasi meglio, paradossalmente –, ma costringe tutti a vivere largamente al di sotto della soglia minima di dignità.

Non si chiudono i musei: no, ma nei bagni non c’è la carta igienica, dai soffitti piove sui quadri, le sale sono aperte a rotazione. E il direttore degli Uffizi guadagna 1800 euro al mese (contro gli 8100 dello stipendio base di Franco Fiorito).

Non si sopprimono le soprintendenze: ma i pochi storici dell’arte e gli archeologi rimasti in servizio in organici ridotti all’osso, non possono usare la macchina di servizio (né farsi rimborsare la benzina o le spese del telefono) nemmeno per fare i sopralluoghi sui monumenti colpiti dal terremoto. E i carabinieri del Nucleo di tutela non possono pagarsi i viaggi per le rogatorie internazionali che consentono di recuperare le opere o i libri rubati.

Non si chiudono gli archivi o le biblioteche: ma se si guastano (succede ogni giorno) i montacarichi che servono a distribuire il pesante materiale cartaceo, non è possibile consegnare i pezzi agli studiosi. E d’inverno non si può accendere il riscaldamento, né d’estate l’aria condizionata: d’altra parte, lo studio non deve forse essere matto e disperatissimo?

Non si eliminano gli enti culturali: ma la prestigiosissima Scuola Archeologica Italiana di Atene è decimata nel personale, ed è costretta da anni ad una indecorosa economia di guerra; l’Accademia della Crusca si aggira ogni anni col cappello in mano; la Società di Storia Patria di Napoli (che possiede la più importante biblioteca sul Meridione) è sull’orlo del fallimento.

Non si chiudono le scuole, ma non ci possiamo permettere gli insegnanti di sostegno, la carta (di qualunque tipo) si porta da casa, e gli autobus per portare i bambini a conoscere le loro città non esistono quasi più.

Non si ha il coraggio di dire che l’università italiana non deve più fare ricerca (per trasformarsi anche ufficialmente in un esamificio e in un concorsificio truccato), ma l’ultimo finanziamento per la ricerca che la mia università mi ha erogato ammonta a 600 euro annui. E l’ho ceduto, come altri colleghi, al dipartimento: in una sorta di colletta che potesse portare ad avere qualche assegno di ricerca per non far scappare all’estero proprio tutti i giovani studiosi più meritevoli.

A questo punto del discorso, qualcuno tira invariabilmente fuori un argomento in apparenza definitivo: «Non ci sono soldi». Ma il mantra del «non ci sono soldi» era già difficile da sostenere prima, visto che nel Paese con l’evasione fiscale più grande dell’Occidente è un po’ dura pensare davvero che ‘non ci siano soldi’: il problema, semmai, è il fatto che preferiamo lasciare quei soldi nella disponibilità dei privati. Gli stessi privati a cui, poi, chiediamo l’elemosina della beneficenza. Una beneficenza che non è a costo zero, visto che – per quanto riguarda, per esempio il patrimonio culturale – si traduce in iniziative contrarie alla funzione costituzionale del patrimonio stesso, che è quella di produrre conoscenza e cultura, e attraverso di esse, eguaglianza e cittadinanza. Questi ‘rimedi’ alla mancanza di denaro pubblico sono infatti tutti all’insegna del mercato, e producono non cittadini, ma clienti: grandi mostre di cassetta (anzi Grandi Eventi), prestiti forsennati di opere delicatissime, iperrestauri a rotta di collo, cessioni di sovranità pubblica a sponsor privati che ‘marchiano’ i monumenti e molto altro ancora. Del resto, l’opzione alternativa è spesso ancora peggiore: non ci sono soldi, dunque che il patrimonio vada pure in rovina.

Ma ora – dopo le feste in costume romano della Regione Lazio, dopo la notizia che il Ponte sullo Stretto ci è costato 300 milioni di euro solo per non esistere, o che il Palazzo della Regione Lombardia ce n’è costato 400, dopo che si apprende che agli incliti consiglieri regionali campani viene distribuito un milione l’anno –, beh, ora è un po difficile pensare che il problema sia davvero che i soldi non ci siano. Semmai, il punto è cosa vogliamo farne, di questi benedetti soldi pubblici.

Ma niente paura: quando avremo definitivamente perduto Pompei, potremo sempre nascondere la nostra vergogna sotto una maschera. Naturalmente, una maschera da maiale.

Il Fatto Quotidiano, 10 Ottobre 2012

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