Da tempo si legge che questa crisi in corso, accanto a situazioni drammatiche, sta avendo anche altre conseguenza: quella di riportare molti coi piedi per terra, ad aprire gli occhi sui falsi miti del lusso e dell’ostentazione volgare che ci hanno ammorbato per anni, e al contempo il risorgere tra i cittadini di valori come la solidarietà, il risparmio, uno stile di vita più consapevole. E ciò mi ha fatto sorgere una domanda.

L’imperativo che grava sui cosiddetti Pigs, gli Stati dell’Europa meridionale, i più indebitati e con situazioni socio-politiche instabili (e per questo considerati “inaffidabili” sui mercati) è quello di risanare i conti e perseguire il rigore finanziario anche a costo di innescare dinamiche recessive. Ma siamo sicuri che siano davvero i conti la posta in gioco, e non piuttosto la necessità di intervenire sugli stili di vita di determinate popolazioni che sono fuori controllo? In altre parole: è la crisi che sta rendendo più poveri, oppure c’è qualcuno che sta usando la crisi come unico mezzo pacifico per riportarci a una dimensione più umana, o ripristinare quantomeno la decenza?

La domanda vuole essere uno spunto, come sempre mi scuso per la semplificazione. Ma ragionate: noi pensiamo a ragione che l’entità del nostro debito pubblico al 120,1% del Pil sia la causa di ogni male. Ma allora come si spiega il caso del Giappone che convive tranquillamente con un debito del 229 % (!) e sembra lontano dalla crisi e nessuno parla di imminente default? Semplice, perché in un contesto di economia altamente funzionante, quei debiti sono investimenti in grado di garantire stabilità lavoro e ricchezza. Lo yen che gira il mondo poi finirà poi in banche che lo reinvestiranno su titoli pubblici giapponesi, chiudendo il ciclo. Il debito è sostenibile perché all’interno di una dinamica economica virtuosa che grazie alla mediazione bancaria garantisce vantaggi al debitore e al creditore in un’ottica di reciproca fiducia e rispetto delle regole.

Il punto è come noi italiani abbiamo utilizzato quei miliardi che compongono il nostro debito. Li abbiamo buttati nei consumi, nel finanziamento di opere inutili, in operazioni clientelari, nei costi abnormi della politica, nella corruzione e nelle tangenti, sostenendo il lassismo del comparto pubblico, soffocando la meritocrazia. Il denaro circolante a debito ha promosso la parte peggiore del paese (si pensi ai milioni investiti per vent’anni dalle aziende in pubblicità televisive al posto di innovare), e alimentato la cultura degenerata del “tutto è dovuto”, fino alle sfilate di una come Nicole Minetti, per dire.

Il nostro debito è stato in buona parte sprecato, lasciando un’economia fragile, instabilità politica e sociale, incertezza sul futuro dei giovani. I creditori non si fidano più di noi, addirittura gli speculatori hanno pensato (nel momento di maggior rischio, scongiurato dalla caduta di Berlusconi) che avrebbero guadagnato di più scommettendo sul nostro default. Ed è questo il vero fallimento, l’immensa colpa della generazione e della classe politica oggi al potere, che speriamo venga spazzata via.

Alla luce di tutto questo, tornando alla domanda iniziale, a mio avviso dietro all’urgenza di risanamento dei conti è in corso un riassetto culturale profondo, nel quale il “nostro modello” di società, di convivenza e di cultura degli ultimi trenta anni è risultato fallimentare. Le doti tuttavia non ci mancano e la crisi serve proprio per ripartire da zero. Per questo è necessario puntare sui giovani, oserei dire, a prescindere.

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