La prima concorrente viene inquadrata lateralmente a partire dai piedi, con una panoramica a salire che ruota leggermente verso destra, in modo da potersi concludere sul primo piano frontale del viso. Della ragazza vengono annunciati nome, professione e provenienza, ma non le viene fatta alcuna domanda e non la si lascia parlare. Il secondo concorrente viene presentato con un’inquadratura frontale a mezza figura, che si avvicina con uno zoom fino al primo piano. Lui comunica i suoi dati, gli viene chiesto di spiegare una sua passione e gli si dà modo di parlare per qualche decina di secondi. La terza concorrente? Idem, come la prima. Le donne sono corpo. Gli uomini parola.

È anche dall’analisi di una semplice sequenza come questa, di un ordinario quiz televisivo, che si può cominciare a prendere consapevolezza del ruolo e dell’immagine della donna in tv. Lo spiega Lorella Zanardo, autrice dell’acclamato documentario “Il corpo delle donne”, poi diventato un blog, nel suo ultimo libro: “Senza chiedere il permesso – Come cambiamo la tv (e l’Italia)” (Feltrinelli), in libreria in questi giorni.

Quasi tre anni dopo la dirompente messa in rete (e in onda) del lavoro che mostrava la scientifica mercificazione del corpo femminile, l’immonda esposizione dagli schermi televisivi di pezzi di carne umana di genere femminile, Zanardo torna sul luogo del delitto. Ma questa volta, alla denuncia accompagna le armi di difesa, e di attacco. Prima fra tutte: la conoscenza del nemico.

Perché per difendersi dalla pervasività della televisione e dai modelli che propone (impone?) a un pubblico molto più vasto e molto meno avvertito di quanto si possa immaginare, occorre (anche) saper decifrare il messaggio, capire che cosa significa quella certa inquadratura, conoscere le tecniche del montaggio. Tutte cose che Zanardo e i suoi collaboratori insegnano nelle scuole dove sono chiamati da insegnanti e studenti. “Un’esperienza importante ed entusiasmante” spiega.

Tutto è cominciato, appunto, con il documentario: dopo averlo visto, alcuni insegnanti hanno pensato che ai ragazzi non basta più saper leggere, scrivere, far di conto, sapere di letteratura scienze e informatica. Ma devono conoscere anche il linguaggio delle immagini, imparare a decifrarlo. E a demistificare ciò che viene loro ammannito quotidianamente da uno dei numerosi televisori di casa (in Italia ce n’è più di uno per famiglia, spesso uno per ciascun membro, posizionato preferibilmente nelle stanze da letto). Lo stesso hanno pensato i ragazzi e le ragazze che, sempre sulla spinta del documentario, hanno invitato Zanardo a molte assemblee e autogestioni.

Ma il volontarismo ha dei limiti, ed è stato principalmente grazie ai finanziamenti di due realtà cooperative (Unicop Firenze e Banche di credito cooperativo del Trentino) che è potuto partire un importante progetto di formazione: fino ad ora, una ventina di formatori ha raggiunto solamente in Toscana circa 7000 studenti. “Insegniamo a ragazzi volonterosi e insegnanti motivati una materia, l’educazione all’immagine, obbligatoria in gran parte delle scuole europee” spiega Zanardo. “Insegniamo loro a cogliere gli stereotipi e i messaggi fuorvianti di un modello non soltanto estetico proposto da quella tv generalista che pare oggi in decadenza, ma che raggiunge pur sempre milioni e milioni di persone delle fasce più indifese, per età e arretratezza culturale, della popolazione”.

Il libro contiene il percorso di “consumo attivo” della televisione elaborato con Cesare Cantù, docente di media education, regista e montatore televisivo, che viene proposto nelle scuole. Ma è anche e soprattutto uno spietato atto d’accusa non solo e non tanto contro la tv-spazzatura ma contro chi dovrebbe porvi un argine. E cioè la parte più acculturata e progressista del Paese, in particolare gli intellettuali di sinisra.

“La maggior parte delle persone che guardano la tv ha la tv come unico mezzo d’informazione, lo sappiamo, ma quanta importanza abbiamo riservato a questo dato?”. Poco o niente, si risponde Zanardo. Perché gli intellettuali non guardano quella robaccia, e se ne fanno vanto. Mentre dovrebbero. La costruzione del consenso (e del senso comune, verrebbe da dire) passa di lì. “Guardare la tv (generalista) può essere un atto militante: il sacrificio di un’ora alla settimana può essere sufficiente per capire chi siamo, perché siamo diventati così. E, forse, come cambiare”.

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