Helena Norberg-Hodge è considerata tra i 10 ambientalisti più influenti al mondo. Linguista, antropologa, ha fondato l’International society for Ecology and future per studiare le cause della crisi sociale e ecologica a livello globale. Il suo docu-film “L’economia della felicità” parla di un altro mondo possibile, di una strada per affrontare e uscire dalla crisi. L’abbiamo incontrata alla III Conferenza internazionale sulla decrescita di Venezia.

Ci insegni l’economia della felicità, se esiste: ne abbiamo bisogno.
“Dobbiamo imparare a riconoscere e contrastare gli effetti più nefasti della globalizzazione che sta distruggendo il pianeta e ci mette in una condizione di continua competizione per il lavoro e le risorse, che ci viene detto sono sempre più scarsi. Ma chiediamoci perché c’è meno lavoro e perché le risorse scarseggiano. Che senso ha importare ed esportare lo stesso quantitativo di patate o mele? Ma quanto ci costa dal punto di vista dell’energia fossile? E’ una follia. Inoltre i sussidi al commercio internazionale e la deregulation dell’economia sono i punti chiave. La localizzazione è una soluzione”.

Perché tornare a produrre localmente? Come possiamo competere, per esempio, con i prodotti cinesi?
“Viviamo nel paradosso che in Inghilterra il burro locale costa più di quello proveniente dalla Nuova Zelanda che pure ha viaggiato per 20mila chilometri. E questo vale per molti altri tipi di merci, in quasi tutti i Paesi. Nella realtà il cibo locale costerebbe davvero meno se venissero aboliti tutti i sussidi più o meno nascosti. L’agricoltura di grande scala, i carburanti, i trasporti sono sussidiati dai governi con le nostre tasse. Inoltre le grandi corporation, grazie alla de-regolamentazione dei mercati, sono libere di fare ciò che vogliono mentre al contrario i piccoli produttori, agricoli e non, sono oberati di regole che ne limitano fortemente l’attività. Quindi occorre regolamentare il grande business e lasciare più liberi i piccoli imprenditori locali. Il che non vuol dire, chiaramente, bloccare il commercio internazionale, ma mettere nuove regole. Dobbiamo dire chiaramente che non vogliamo più pagare tasse che vanno a favore solo di grandi imprese e banche e non della popolazione. E’ anche un problema di crisi della democrazia”.

Lei ha studiato paesi e culture diverse in tutto il mondo. Che effetti ha la globalizzazione sulla vita delle donne?
“Nei paesi in via di sviluppo, ma non solo, le donne sono sottoposte ad un doppio tipo di pressione: le più povere per la ricerca di un lavoro, mentre quelle di classe media, che non hanno bisogno di lavorare, sono succubi della società dei consumi e la pressione psicologica è molto forte. Ho studiato per 25 anni la cultura del Ladak, il Piccolo Tibet, dove le donne hanno sempre avuto molto potere nelle decisioni e ho potuto constatare che l’impatto con la cultura occidentale ha immediatamente creato modelli completamente avulsi dalla realtà: le donna-Barbie e l’uomo-Rambo, con evidenti problemi di conflitto di genere. Pensiamo anche all’educazione dei bambini: in Asia si è innescata una competizione sfrenata per la conquista del lavoro, per l’ascesa sociale. Così si impone ai bambini di stare a scuola fino alle 9 di sera, di imparare l’inglese a partire dai 3 anni, anche a rinnegare la propria cultura. Saranno felici questi bambini, e queste madri?”.

La ricerca del lavoro è una necessità per (quasi) tutti.
“Certo, ma la scarsità del lavoro non è dovuta alla crescita demografica, ma al fatto che l’uomo si è messo in competizione con le macchine. Che senso ha far raccogliere le mele ad una macchina? Che ne sa la macchina di una mela matura? Quante ne lascia sull’albero? Siamo sicuri che sia così efficiente? Siamo sicuri che vogliamo mettere i nostri bambini davanti ad un computer per imparare a scrivere? Siamo sicuri di volere infermieri-robot? Dobbiamo tornare in molti campi ad attività ad alta intensità di lavoro non solo per garantire occupazione ma anche per guadagnare in efficienza. E’ dimostrato, per esempio, che piccole-medie aziende agricole che praticano l’agricoltura biologica producono più cibo, per unità di superficie, dei colossi dell’agri-business”.

Le donne possono aiutare il processo di de-globalizzazione?
“Nei movimenti ambientalisti le donne sono ovunque di gran lunga più numerose degli uomini, ma difficilmente diventano leader. Le donne sono particolarmente dotate nella comunicazione orale, però privilegiano i rapporti personali, rapporti di comunità nei piccoli gruppi. Vivono il potere come separazione, e questo alle donne non piace”.

Lei è stata invitata all’inaugurazione di una Conferenza sulla decrescita. Cosa pensa dell’idea di non inseguire il modello della crescita economica?
“Mi sento in perfetta sintonia con il pensiero di Serge Latouche. La decrescita e l’economia della felicità sono un po’ la stessa cosa, intendono determinare una svolta che ci allontana dal globale. Mi piace in particolare l’espressione “decrescita felice” perché fornisce una visione positiva della vita”.

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