Alcune delle questioni più importanti per la società americana non sono state neppure menzionate nella battaglia per le presidenziali 2012. Di più. A prescindere da chi vincerà il 6 novembre, Barack Obama o Mitt Romney, alcune delle scelte decisive per il futuro degli Stati Uniti – in primo luogo giustizia sociale, eguaglianza, diritti civili – non verranno prese alla Casa Bianca. Si apre oggi a Washington il nuovo anno giudiziario della Corte Suprema, e i nove giudici dovranno nei prossimi mesi affrontare casi spinosi, capaci di spaccare l’opinione pubblica, tali da modellare la società americana per i prossimi decenni. Tra questi, l’affirmative action, i matrimoni omosessuali, i diritti elettorali. Se l’anno scorso è stato dominato dalla sentenza sulla riforma sanitaria – che ha confermato i punti essenziali della legge di Obama – il prossimo ha al proprio centro le questioni di chi può frequentare il college, chi può sposarsi, chi può votare.

Il 10 ottobre la Corte Suprema ascolterà il caso Fisher v. University of Texas. Abigail Fisher nel 2008 si vide rifiutare l’ammissione alla University of Texas di Austin. La ragazza, bianca, fece immediatamente causa, accusando l’università di averla discriminata sulla base della sua appartenenza etnico-razziale. La University of Texas recluta l’80% circa dei suoi studenti esclusivamente sulla base dei risultati scolastici. Il restante 20% è selezionato prendendo in considerazione vari fattori: i voti alle superiori, ma anche particolari abilità, le condizioni familiari e, appunto, la “race”, l’appartenenza etnico-razziale. Abigail accusa la University of Texas di averla esclusa unicamente sulla base del colore della sua pelle, violando così il 14esimo emendamento. Nel caso la Corte dovesse darle ragione, crollerebbe l’intero edificio che ha sinora sostenuto l’affirmative action, le azioni positive che hanno favorito l’inserimento di rappresentanti delle minoranze nelle scuole e nei luoghi di lavoro. Era dal 1996 che il tema era scomparso dalla politica americana. Il nuovo caso è quindi l’occasione che larghi settori del mondo conservativo attendevano da tempo. “Questo è probabilmente il caso di affirmative action più importante della storia americana”, hanno detto giovedì scorso molti membri della Federalist Society, un gruppo che propone un’interpretazione letterale della Costituzione.

L’amministrazione di Barack Obama ha invece preso posizione a favore della University of Texas. “Ma con moderazione”, fanno sapere dall’università. Il presidente, in effetti, ha sempre giocato la “carta razziale” con estrema prudenza, temendo un riacutizzarsi delle tensioni provocate dalla sua elezione. Quest’anno, poi, la prudenza di Obama è ancora più comprensibile. Il presidente è a caccia del voto della working-class bianca del Midwest. Riaccendere le polemiche sull’affirmative action è l’ultima cosa che la Casa Bianca desidera in un anno elettorale. La Corte Suprema prenderà con ogni probabilità in esame nei prossimi mesi anche la questione dei matrimoni omosessuali. E’ una richiesta che viene ormai sia dai gruppi omosessuali che da quelli religiosi e conservatori. Gli Stati Uniti sono infatti un territorio a chiazze. Sei Stati – Massachusetts, Connecticut, Iowa, New Hampshire, New York, Vermont, oltre a Washington DC – riconoscono i matrimoni tra persone dello stesso sesso. Il governo federale sarebbe però ancora tenuto a rispettare il Defense of Marriage Act, che definisce il matrimonio come unione esclusiva tra un uomo e una donna. L’amministrazione Obama ha rinunciato a difendere la norma, suscitando critiche e indignazione dei repubblicani. Una razionalizzazione legislativa è comunque a questo punto necessaria. I gruppi omosessuali sanno di giocarsi il tutto per tutto. Una decisione a loro favore avrebbe l’effetto di un’altra storica sentenza, la Brown v. Board of Education, che nel 1954 dichiarò anticostituzionale la segregazione razziale. Il no della Corte allontanerebbe, probabilmente di anni, il traguardo del gay marriage.

L’altro caso che la Corte ascolterà sarà quello relativo a un’altra conquista del movimento per i diritti civili del secolo scorso: il “Voting Rights Act”, che nel 1965 mise fuori legge pratiche e misure responsabili dell’esclusione dal voto degli afro-americani (soprattutto la norma che prevedeva un test di lettura e scrittura per gli elettori). La Corte Suprema dovrebbe valutare uno dei pilastri della legge: il diritto del Dipartimento alla Giustizia a dare l’ok a ogni cambiamento delle norme elettorali di quegli Stati, soprattutto al Sud, con un passato di discriminazione razziale. Il rischio è il ritorno a vecchie discriminazioni, come già successo quest’anno con l’approvazione di misure su identificazione degli elettori e corretta grafia dei loro nomi che penalizzano il voto dei neri. Oltre alla straordinaria importanza sociale e politica, le sentenze di quest’anno aiuteranno anche a capire gli orientamenti del presidente della Corte, John Roberts. Nominato da George W. Bush, sinora considerato uno dei pilastri conservatori del massimo organo giudiziario americano, Roberts ha votato con i quattro giudici liberal in occasione del voto sulla riforma sanitaria di Obama. Ulteriori allineamenti con i liberal segnalerebbero un suo approdo verso posizioni più moderate, rendendo così più difficile quella “rivoluzione conservatrice”, attraverso la Corte Suprema, teorizzata negli scorsi decenni da molti esponenti della destra Usa.

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