Après moi le déluge, dopo di me il diluvio, si dice abbia illo tempore detto – forse preconizzando la rivoluzione francese – re Luigi XV, il penultimo dei monarchi assoluti di Francia. E proprio questo, a meno d’una settimana dalle presidenziali venezuelane, è quel che, in rossiniano crescendo (nonché, ovviamente, mutatis mutandi), non si stanca di ripetere il molto “bolivariano” presidente Hugo Chávez Frías, un protagonista dei tempi nostri che, pur non essendo, almeno in termini strettamente costituzionali, né monarca, né assoluto, come tale fosse ama di norma esprimersi. Dopo di me, o meglio, dopo una mia eventuale sconfitta elettorale, sostiene Chávez, null’altro che questo: una “guerra civile”, il caos, le tenebre d’un apocalittico ed “inimmaginabile” ritorno ad un passato di violenza e di vergogna.
Chavez-Capriles
Hugo Capriles, lo sfidante di Chavez

Perché una guerra civile? Vale, io credo, la pena di partire da qui, da questa essenziale domanda – e dalla contraddizione che questa domanda sottende – per cercare di cogliere, nell’immediato e in prospettiva, il significato del voto del prossimo 7 ottobre. Una mia sconfitta, sostiene Chávez, è semplicemente “impossibile”. Non c’è modo, insiste, che il “candidato dell’impero e della borghesia” possa battermi nelle urne. Ed anzi più che certo è che, quella della domenica che viene, sia per lui (per il candidato dell’impero e della borghesia) una catastrofica disfatta, un knock out al primo round, un classico ed umiliante “cappotto”, una legnata da “almeno 10 milioni di voti” (circa il 70 per cento del totale), tanti quanti Chávez appare sicuro d’ottenere dal popolo del quale lui , “corazón de Venezuela” (questo è il suo slogan di campagna), è il cuore palpitante. Non c’è patria, non c’è Venezuela senza Chávez…Tanto sicuro, in effetti, appare Chávez del suo trionfo – e tanto alto è il suo disdegno per gli avversari che s’appresta a “polverizzare” – che non ha di recente esitato ad augurarsi, con molto affettata condiscendenza, la nascita, dopo il voto, d’una opposizione più solida e seria, capace, quantomeno, di dar sapore alle future vittorie del “Socialismo del XXI secolo”…

Questo dice Chávez. Ma poi, delineati questi “inevitabili” orizzonti di gloria, con inalterati, messianici accenti comincia a descrivere i catastrofici effetti della “impossibile” vittoria elettorale del “majunche” (majunche è un insulto tipicamente venezuelano non troppo lontano dal nostro “mezza tacca”; ed è così che il presidente bolivariano usa elegantemente chiamare Henrique Capriles Rodonski, il candidato dell’opposizione). Se “el majunche” dovesse prevalere nelle urne – va senza sosta sostenendo Chávez – la pace sarebbe la prima vittima del suo trionfo. Il Venezuela precipiterebbe in una guerra civile perché, dice il presidente, l’opposizione tiene nel cassetto programmi economici e politici “neoliberali” – il cosiddetto “paquetazo secreto”, uno degli ultimi refrain della campagna chavista – che non potrebbero, se applicati, non provocare l’ira funesta del popolo.

Come si spiega questa logica discordanza? Per quale ragione Chávez con tanta insistenza evoca il fantasma d’un diluvio, o d’una “guerra”, che non può aver luogo perché “impossibile” (ipse dixit) è il suo principale presupposto? Mi fermo qui, porgendo intatto il quesito a eventuali commenti; e limitandomi, per il momento, a descrivere i panorami statistici nei quali va dipanandosi la trama di queste – per molti aspetti paradossali – elezioni presidenziali. Due termini – un aggettivo ed un sostantivo: “affidabile” e “sondaggio”– si sono in questi anni rivelati, in Venezuela, quasi impossibili da unire in matrimonio. Ma nel gran ballo delle cifre – tuttora marcate da una sconcertante disomogeneità e da un’assai rilevante quantità di elettori indecisi – alcune ipotesi sembrano emergere con certa chiarezza.

Hugo Chávez resta il naturale favorito d’un processo elettorale da molti correttamente definito (avrò modo di tornare sul tema) “libero, ma non equo”. Libero (o, se si preferisce, legittimo) perché in Venezuela si vota con un sistema elettronico che tutti gli esperti definiscono a prova di frode. E “non equo” perché tutte le regole del gioco pendono (non di rado in termini grotteschi) dalla parte del potere costituito.  Per quanto ancora improbabile, tuttavia, una vittoria del candidato dell’opposizione non appare più “impossibile”. Nel 1998, Chávez vinse con 16 punti di vantaggio, nel 2000 per 22, nel 2006 per 26. Domenica prossima – se, com’è probabile prevarrà ancora – i suoi margini saranno,  quasi tutti ne sono convinti, molto più vicini allo zero. E tanto basta per delineare, ben oltre l’appuntamento elettorale di domenica, i contorni d’una  crisi del sistema ”ibrido” – metà autocrazia, metà democrazia – che Hugo Chávez, sospinto dal più grande e prolungato boom petrolifero della Storia,  è andato costruendo in questi quattordici anni. Un sistema (molti lo chiamano regime) che, per la sua natura plebiscitaria e per le sue pretese di “irreversibilità” difficilmente può reggersi con risicate maggioranze.

Giorni fa, durante un dialogo con gli elettori, Henrique Capriles Rodonski ha così risposto a un giovane che gli chiedeva la differenza tra lui e Chávez. “Lui crede di essere il cuore del Venezuela – ha detto -. Io, invece, ho soltanto il Venezuela nel cuore”. E proprio questo è, probabilmente, il punto vero. Il “corazón” messianico del chavismo sta – quali che siano i risultati del 7 ottobre – battendo a vuoto. Il paese comincia ad esser stanco dell’ “uomo della Provvidenza”. Ed è questo il diluvio che, come Luigi XV, Chávez sente arrivare…

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