L’ad del Lingotto ha di fronte una decisione difficile: sostenere i costi di mantenere in attività impianti ampiamente sottoutilizzati nell’attesa che la domanda per automobili riprenda o tagliare la capacità produttiva adesso, lasciando però campo libero ai concorrenti quando arriverà la ripresa. Al di là dell’aspetto congiunturale, rimangono i problemi di competitività ed eccesso di capacità. Quanto al ruolo che può svolgere il Governo, riguarda l’azione di riforma generale del paese. Per migliorare la competitività di tutte le imprese, non solo di Fiat.

di Fabiano Schivardi* (lavoce.info)

È ormai chiaro che la Fiat sta considerando seriamente la possibilità di ulteriori riduzioni della capacità produttiva, dopo quella di Termini Imerese. Lo stillicidio di comunicati e dichiarazioni da parte dell’azienda hanno fatto salire alle stelle la tensione sul futuro degli stabilimenti italiani della multinazionale. Quasi tutti chiedono un intervento urgente del Governo. Quasi nessuno dice per fare cosa.

Tre fattori per una scelta

Sergio Marchionne ha di fronte una decisione difficile: sostenere i costi di mantenere in attività impianti ampiamente sottoutilizzati nell’attesa che la domanda per automobili riprenda o tagliare la capacità produttiva adesso. Un taglio immediato della capacità produttiva ridurrebbe le perdite, ma precluderebbe la possibilità di far fronte ad aumenti della domanda quando si realizzeranno, lasciando campo libero ai concorrenti sul mercato europeo. Il problema può essere visto come la decisione di acquisto di un’opzione: coprendo le perdite correnti (il costo dell’opzione) si mantiene una capacità produttiva che può essere utile se la domanda riprende (il valore dell’opzione). La scelta, alla fine, dipenderà da come Marchionne valuta il costo di mantenere impianti sottoutilizzati rispetto al valore di avere capacità produttiva pronta a soddisfare eventuali aumenti della domanda. Per capire i fattori dell’equazione, è utile focalizzarsi su tre elementi. 

Il primo è il rapporto Italia-Usa. Nell’aprile 2010 viene annunciata Fabbrica Italia. In cambio di investimenti, Marchionne chiede flessibilità nella gestione delle fabbriche. Contrariamente agli applausi a scena aperta ricevuti in America, in Italia si sentono anche parecchi mugugni e dal loggione partono selve di fischi e qualche pomodoro. Da allora, il divario fra il rapporto con Detroit e quello con Torino si allarga. Là, l’acquisizione di Crysler prosegue secondo la tabella di marcia e Marchionne presiede comitati per raccolte fondi per i bisognosi accanto al sindaco della città. Qui, la Fiat decide di isolarsi il più possibile dal contesto istituzionale italiano, uscendo da Confindustria per non dover sottostare si contratti nazionali. La guerra giudiziaria con la Fiom, come prevedibile, crea una forte incertezza senza determinare vincitori né vinti. Marchionne non nasconde certo la sua insofferenza per la situazione italiana, fino a dichiarare che “qualcuno ha aperto i cancelli dello zoo e sono usciti tutti”.
Marchionne ritiene che in Europa ci sia capacità produttiva in eccesso. La sua proposta è di gestirla a livello comunitario per evitare bagni di sangue. La sua richiesta non trova seguito, soprattutto perché le case tedesche al momento non ritengono di dover ridurre la propria capacità e non temono una guerra commerciale, avendo parecchia liquidità in cassa. Diverso il discorso per le case francesi.

La congiuntura europea è peggiorata drasticamente rispetto al periodo in cui il piano Fabbrica Italia è stato presentato. Il cambiamento coglie la Fiat impreparata. La vendite di auto, in particolare in Italia, vanno a picco. La strategia di “passare attraverso la crisi in apnea”, rinviando l’introduzione di nuovi modelli a tempi migliori, rischia di portare l’impresa all’asfissia per apnea prolungata. Rimane il fatto che, con un mercato così depresso, l’investimento in nuovi modelli rischia di essere un’operazione in perdita.
I tre fattori hanno un peso determinante nella decisione sul futuro degli impianti italiani. Al momento, il più pressante è il terzo: serve una ripresa della congiuntura europea. Tanto più la crisi si prolunga, tanto più è costoso mantenere attivi impianti sottoutilizzati e tanto più è lontano il momento di poterli sfruttare. Ma la Fiat dovrebbe fare bene i propri conti prima di imbarcarsi in tagli della capacità produttiva. Come il dentifricio non rientra nel tubetto, così le competenze disperse non si rimettono più assieme: è una scelta irreversibile. Dal punto di vista congiunturale, regna l’incertezza più assoluta. Ma l’incertezza fa aumentare il valore di un’opzione. I recenti sviluppi a livello europeo hanno aperto uno spiraglio e a questo punto una ripresa dalla seconda metà del 2013 è diventata una possibilità. Se l’economia europea si riprende, le vendite di automobili potrebbero rimbalzare. Come tutti i beni durevoli, le vendite di automobili sono fortemente pro-cicliche: gli acquisti rinviati durante la crisi vengono effettuati durante la ripresa. In aggiunta, la chiusura di stabilimenti italiani avrebbe ripercussioni sull’immagine interna di Fiat, e quindi sulle sue vendite in Italia, che tuttora rappresenta una fetta consistente del suo mercato. Ridurre la capacità produttiva ora mette a repentaglio la rilevanza di Fiat nel mercato europeo. La strategia vincente di Marchionne è stata di diversificare la propria presenza nel mondo, sfruttando le aree in crescita per mantenere i conti in ordine. Ridimensionarsi in Europa è il contrario di questa strategia e, nel giro di un paio d’anni, potrebbe rivelarsi un errore.

Oltre la congiuntura

Ma, al di là dell’aspetto congiunturale, rimangono i problemi di competitività ed eccesso di capacità. Anche se ci fosse domanda di automobili, bisogna fare in modo che produrle in Italia sia conveniente. È questo l’aspetto più preoccupante della vicenda. Se anche ci fosse la ripresa, ma la Fiat fosse convinta che è non è più conveniente produrre in Italia, allora la riduzione di capacità produttiva sarebbe una scelta inevitabile. Ed è inutile appellarsi ai doveri storici di Fiat verso il paese: l’economia di mercato non funziona così. Questi argomenti sono noti e ampiamente trattati su questo sito (si veda il dossier).
Quale ruolo può giocare il Governo in questo processo? Un ruolo importante, ma non con interventi specifici al caso Fiat. Soldi da mettere sul tavolo non ce ne sono. E comunque, le politiche di sostegno dirette alla casa torinese hanno contribuito a portare l’impresa sull’orlo del fallimento. La rottura del cordone ombelicale fra Stato e impresa è stata un bene. La Fiat può usare gli strumenti già disponibili, quali cassa integrazione e contratti di solidarietà, per ridurre i costi di mantenimento degli impianti sottoutilizzati. Il contributo del Governo riguarda l’azione di riforma generale del paese. Bisogna proseguire ancora più decisamente sulla strada delle riforme strutturali. Rendono il sistema più competitivo e migliorano la competitività di tutte le imprese. Accrescendo la fiducia nell’Italia, contribuiscono anche a superare la crisi del debito e ad avvicinare la ripresa. Nodi da sciogliere non ne mancano, molti sono stati fatti emergere proprio dalla vicenda Fiat.

*È professore straordinario di Economia Politica presso l’Università di Cagliari. Si interessa di economia industriale e del lavoro, focalizzandosi in particolare su produttività e demografia d’impresa. I suoi lavori recenti considerano gli effetti della struttura dimensionale e proprietaria sulla performance delle imprese. Ha lavorato al Servizio Studi della Banca d’Italia dal 1998 al 2006, dove è stato responsabile dell’Ufficio Analisi Settoriali e Territoriali dal 2004. Ha conseguito il Ph.D. in Economia presso la Stanford University e la laurea e il dottorato presso l’Università Bocconi. È fellowdell’Einaudi Institute of Economics and Finance (EIEF),  del CEPR, del Centro Ricerche Economiche Nord Sud (CRENoS) e del BRIK. Fa parte del comitato scientifico dell’Osservatorio sulle piccole e medie imprese. I suoi saggi sono stati pubblicati su riviste internazionali e nazionali.

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