“Il ministro della salute Renato Balduzzi dovrebbe smettere di perdere tempo. Invece di fare ricorso, come ha annunciato nei giorni scorsi, contro la bocciatura della Corte europea della Legge 40 del 2004 – che riguarda la procreazione medicalmente assistita e che secondo Strasburgo viola la Convenzione europea sui diritti umani – il ministro dovrebbe occuparsi di problemi più seri come l’epidemia di tumore al seno, che colpisce una donna su otto”.

A lanciare l’appello è una blogger che si fa chiamare “L’Amazzone furiosa”, che ha scritto una lettera a Balduzzi. “Che cosa sta facendo ministro per porre in essere le misure adeguate per mettere argine a quella che la Commissione sanità del Senato della Repubblica ha definito una sfida sanitaria non dilazionabile?- chiede l’Amazzone furiosa – Che cosa sta facendo l’Italia per adeguarsi alle raccomandazioni del Parlamento europeo che dice di considerare il cancro al seno una priorità della politica sanitaria degli Stati membri ?”

La lettera al ministro è girata su internet e altre donne hanno deciso di aderire all’iniziativa. Hanno inviato diverse email alla segreteria del ministero della Sanità. Ma nessuno ha ancora risposto. Eppure la relazione della Commissione sanità è consultabile sul sito del Senato e i numeri sono inequivocabili: il tumore al seno è la prima causa di morte nella fascia tra i 35 ed i 50 anni. Il 30% delle donne che si ammalano ha meno di 44 anni.

L’Amazzone è parecchio arrabbiata. Due anni fa, quando ne aveva 30, le è venuto un tumore al seno. Non se l’aspettava. Non aveva né familiarità – mamma, zia o nonna malate – né predisposizione genetica (come ha scoperto poi dal test del Dna). Un giorno ha sentito una piccola pallina sotto l’ascella. La corsa dal medico, l’ago aspirato, l’attesa, il responso: tumore al seno. Sono seguite pesanti cure, un intervento e la menopausa forzata.

Dal giorno della diagnosi l’Amazzone non riesce a smettere di chiedersi: perché è successo? “Vorrei sapere quali sono le cause che hanno provocato il mio tumore visto che la genetica non c’entra nulla – dice – Negli Stati Uniti, in Canada e in Germania c’è un network di donne che non smette di farsi questa domanda. E che cerca di trovare delle risposte concrete legate alle sostanze inquinanti, all’ambiente, all’alimentazione. Da noi, invece, il dibattito è ancora embrionale. In Italia, quando faccio vedere la mia rabbia tutti mi dicono: non fare così, accettalo. E invece – come dicono anche le americane – la rabbia è una risorsa, se usata nel modo giusto”.

Dalle pagine del blog l’Amazzone racconta la sua quotidianità. Si sfoga, anche. Ma non solo. Con i suoi post cerca di cambiare l’immaginario che ruota attorno al tumore al seno. Si scaglia contro l’uso del fiocchetto rosa come simbolo della lotta contro il cancro alla mammella, “una strumentalizzazione dei grandi marchi sulla pelle delle donne. A ottobre, il mese della prevenzione – racconta – ne fanno di ogni. Un anno hanno perfino messo in vendita, nei supermercati, un mocio del pavimento fatto per l’occasione, di colore rosa, con la promessa di destinare una parte del ricavato alla ricerca”.

Critica le Race for cure, le campagne internazionali “durante le quali alcune aziende testimonial preparano gadget come ad esempio assorbenti da distribuire nel mese della prevenzione. Danno l’assorbente a donne come me che hanno nemmeno più le mestruazioni: ridicolo. Quest’anno ci sarà una Race for cure a Bologna, a fine settembre, e una a Napoli, a ottobre. Per l’occasione organizzano una grande festa. Si corre, anche. E si mostrerà con orgoglio di essere sopravvissute”.

L’Amazzone furiosa detesta il mito della sopravvissuta. “Le testimonial del tumore al seno sono sempre attrici o donne famose che ce l’hanno fatta. Dall’alto dei loro ultracorpi sembrano dirci che il tumore al seno è un accidente ineluttabile. Ma superabile. E le altre? – chiede. – Quelle che sono al quarto stadio, con metastasi diffuse, che vedono affievolirsi le speranze di sopravvivenza, dove sono nella rappresentazione mediatica? Di loro non si vuole parlare. Eppure esistono. E non sono poche. Tutte noi che abbiamo avuto un tumore dobbiamo fare i conti con l’eventualità di una recidiva oppure di una metastasi”.

Oltre alle critiche, l’Amazzone furiosa propone soluzioni concrete. Sta preparando, con l’aiuto della sua rete di followers, un manifesto sul tumore al seno. Cerca di spiegare quali sono le probabili cause ambientali – inquinamento, uso di prodotti con sostanze cancerogene, alimentazione – di questa malattia. Traduce ricerche dall’inglese e suggerisce nomi di esperte e blogger. Inoltre ricorda che anche l’Italia dovrà dotarsi entro il 2016 – come indicato dalla Ue – delle cosiddette “Breast units”, equipe ad hoc (formate da senologhi, chirurghi, psicoterapeuti, nutrizionisti e specialisti in medicine alternative) per curare e sostenere le pazienti con tumore al seno e per le azioni di screening.

Le “Breast units” dovrebbero anche servire a rendere l’accesso alla diagnosi e alle cure più democratico. “Perchè la verità è che l’Italia ha non pochi problemi nell’offrire la giusta assistenza sanitaria a tutti – dice l’Amazzone. – Il numero chiuso nelle università, la carenza di medici, l’accesso non meritocratico alla professione e alle specializzazione (come d’altra parte accade in tutti gli altri settori), le disparità tra le diverse regioni, fanno sì che la situazione della sanità non sia eccezionale. Anzi: se vuoi le cure migliori e le vuoi subito devi pagare”.

E non tutti hanno i soldi. Che dire ad esempio delle molte donne immigrate che hanno redditi bassi e scarse probabilità di entrare in contatto con programmi di screening? “Io che sono originaria della provincia di Foggia e che ora sta finendo un dottorato in Inghilterra – dice l’Amazzone – sono andata a curarmi all’Ieo a Milano, dove opera Umberto Veronesi. Ha fatto anche la chemioterapia lì, per un anno e mezzo. In quel periodo ho dovuto vivere a Milano, affittando una casa. E sono stata seguita da uno psicologo, un nutrizionista e un omeopata. Tutto questo è costato parecchi soldi. Mi chiedo: quante sono le donne che se lo possono permettere?”

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