Sono a Strasburgo da poche ore e per la prima volta. A costo di apparire ingenuo, voglio partire dalle mie prime due sensazioni a caldo: è una città silenziosa ed è una città che t’invita a rispettare le regole.

Disclaimer: sono a Strasburgo a seguire i lavori della sessione plenaria del Parlamento Europeo. Sono stato invitato proprio dall’istituzione europea per raccontare ciò che accade qui, quali sono i temi oggetto di discussione, qual è il ruolo dell’Europa nella costruzione delle politiche pubbliche all’interno degli Stati, concentrandomi in particolare sull’Italia.

Da cittadino del Sud, il silenzio nel vissuto quotidiano è per me un concetto piuttosto relativo. Per questo lo sento particolarmente. Nella “città più tedesca della Francia” (definizione rubata a una mia concittadina, Giovanna, che vive qui) la quiete è uniforme. È la stessa alle cinque del pomeriggio a Place de la Republique come nella tarda serata nelle vie del centro storico, dove la massima fonte d’inquinamento acustico è rappresentata i campanelli delle biciclette. Le due ruote sono un elemento uniformante dei giovani di Strasburgo, che provengono da tutta Europa e che, nei giorni “europei” della città alsaziana, rappresentano un’unica, indistinta generazione fatta di studenti, lavoratori stabili e di assistenti parlamentari.

Ieri sera dopo cena ho camminato per le vie del centro senza consultare mappe e senza chiedere informazioni. Qui bastano sei linee di tram per cablare la città. La sensazione è che sia sufficiente questa copertura per arrivare ovunque. Durante le ore di punta i mezzi passano ogni cinque minuti e le linee sono attive dalle quattro e mezzo del mattino fino a mezzanotte e mezza. Ogni fermata del tram ha un box dove si possono acquistare i biglietti, in qualsiasi momento. La particolarità è che si può comprare un singolo biglietto con monete o carte di credito. 

Quando dicevo che Strasburgo invita a rispettare le regole, mi riferivo proprio alle politiche di trasporto pubblico della città. Mi riferisco sia alle regole esplicite (pagare il biglietto per usare i mezzi è così facile da rendere assolutamente volontaria, e dunque pienamente punibile, la decisione di non acquistarlo) che a regole implicite (non prendere la macchina, non produrre traffico, non inquinare: quando il trasporto pubblico è efficiente, prendere la macchina è prima di tutto una scelta stupida).

Non è sufficiente evocare il sacrosanto rispetto delle regole, bisogna anche aiutare il cittadino a metterlo nelle condizioni ideali per rispettarle.

Queste due caratteristiche di Strasburgo mi sembrano efficaci per descrivere il modo ‘europeo’ di fare politica e le differenze con il nostro modo di intenderla. Qui si discute di temi cruciali ma che in Italia avrebbero scarso appeal giornalistico: i rischi democratici per le prossime elezioni in Bielorussia, regole vincolanti per l’efficienza energetica nei processi di ristrutturazione degli immobili, uniformità legislativa europea per le vittime di reati nell’area UE, nuove strategie condivise per la politica estera, politiche comuni per la pesca.

Questi temi, visti dal nostro Paese, potrebbero apparire eccessivamente ‘silenziosi’. Il modo europeo di fare politica potrebbe apparire fin troppo preciso, puntuale, regolatorio.

In Italia molti reclamano (almeno a parole) questo modo di fare politica, lontana dagli eccessi, dalle urla, dalla mortadella in Parlamento, dalle discussioni infinite e spesso inutili. Ma siamo davvero certi di volere una politica concentrata, attenta, per certi versi “noiosa”? Non ho una risposta definitiva a questa domanda, ma trovo illuminante una suggestione che un altro mio amico, Paolo, ha scritto su Facebook qualche giorno fa: “Sono andato via da Napoli per cercare l’ordine, qui in Inghilterra mi manca il disordine”. Sarà difficile, forse impossibile, uscire dalla dialettica al testosterone, dalla polemica fine a se stessa, dalla tentazione della semplificazione giornalistica che spesso sostituisce il dibattito tra idee con il dibattito tra persone che rappresentano quelle idee. 

Arrivando in Francia mi sono imbattuto nel capitolo dell’autobiografia di Christopher Hitchens in cui il giornalista inglese scomparso nello scorso dicembre spiega la sua battaglia più controversa a sostegno di tutti gli interventi militari in Iraq e in Afghanistan dopo l’11 settembre. Secondo Hitchens l’attacco di Al Qaeda alle Torri Gemelle è ‘fascismo’, così come è fascista impedire la satira su Maometto o imporre la sharia. Per lui non esistono margini di manovra, né è possibile attribuire responsabilità o addirittura colpe all’Occidente per quell’attacco. Tutto ciò che è possibile fare per sconfiggere i talebani doveva essere preso in considerazione. Io non riesco a pensarla in modo del tutto analogo: ignorare alcune mistificazioni come la non-presenza di armi chimiche sul territorio iracheno come pretesto per l’attacco vuol dire offrire un fianco perenne a ogni nuova forma di fondamentalismo con pretesti religiosi. 

Oggi è proprio 11 settembre e viverlo qui, in una delle culle politiche della nostra terra e della nostra storia, non mi lascia indifferente. La sessione plenaria di oggi è iniziata con un minuto di silenzio e con un migliaio di persone, tra parlamentari, giornalisti e pubblico, in piedi in silenzio. Sono certo di una cosa: una scena del genere, pur essendo meramente commemorativa, mi ha reso contento di vivere in Europa, un continente per antonomasia ‘Vecchio’ e certamente pieno di contraddizioni, ma dove la difesa e la promozione della cultura dei diritti resta sempre un argomento all’ordine del giorno. 

Stamattina, arrivando qui, mi sono ritrovato ad assistere a un dibattito tra una nostra delegazione di europarlamentari (tra cui David Sassoli, Sergio Cofferati, Silvia Costa, Rita Borsellino) e un gruppo di attivisti del Congo, guidati da John Mpaliza, che hanno iniziato una marcia da Reggio Emilia il 29 luglio e che culminerà a Bruxelles il 22 settembre (1600 chilometri in quaranta giorni), che ha unito attivisti da tutta Europa, artisti italiani (tra cui Ascanio Celestini) e che chiede alle istituzioni di intervenire per tutelare il paese africano da venti anni di violenze che hanno causato circa 7 milioni di morti. 

Basterebbe assistere dal vivo a una scena del genere, cogliere la sincera speranza da parte di popolazioni assediate dall’assenza di diritti, di prospettive, spesso dalla guerra o da governi scarsamente democratici nei confronti delle istituzioni europee per tornare a considerare positivamente, e anche piuttosto rapidamente, il valore dell’Europa (con tutti i limiti attuali, che non vanno ignorati) e allo stesso tempo combattere con forza ogni miope allusione alla fine dell’Euro. Il problema non è la moneta unica, piuttosto l’assenza di politiche davvero unitarie. Serve più Europa, non meno Europa.  

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