Entrano in scena fianco a fianco, Irina e Madame Simpson, al secolo Anna Amadori e Olga Durano, gli sguardi spietati, spiegati come vele, e il passo brusco da gendarmi, tutt’attorno la steppa siberiana che ci s’immagina nel cuore della cortica erbosa. Entrano leste e si sdraiano lontane, le due, avide entrambe di un posto al sole. “Ho ricevuto una lettera dallo zio Pierre, è molto preoccupato per te. Si chiede perché hai lasciato il corso di piano”, fa la grande alla piccola, inquisitoria. E nuovamente la incalza: “Irina, chi è il tuo amante?”.

Un parrucchiere promiscuo o qualche cosacco girovago, o forse un rivoluzionario fedifrago, l’ufficiale Garbenko? Oppure ancora, inattesa, l’insegnante di piano, la signora Garbo, un transgender dal corpo di donna ed il sesso maschile – Eva Robin’s in scena – che per Irina ha perso la testa, e che è pronta, è pronto, a fuggire con lei oltre frontiera, sui binari diacci della transiberiana?

“Ci sono delle circostanze nella vita e lei, signora Simpson, lo sa meglo di me, in cui non si può fare a meno di essere sinceri”, fa la Garbo dichiarandosi a Irina. E nella sua battuta, la stessa che scrisse e pronunciò Raúl Damonte Botana, in arte Copi, autore e attore della pièce, durante la prima dello spettacolo al Théatre de la Resserre di Parigi, anno 1971, c’è il grattacapo centrale, oltre il sipario: quello dell’incomunicabilità di sé stessi.

“L’omosessuale o la difficoltà di esprimersi” è una commedia tragica (o una tragedia da avanspettacolo) fra le più potenti e pungenti del vignettista e drammaturgo franco-argentino, oggi riproposto dal regista Andrea Adriatico – lo scorso luglio ai bolognesi Teatri di Vita, i prossimi 5 e 6 settembre al Teatro India di Roma – coi dialoghi serrati e illogici dei suoi attori en travesti, così complessi e incapaci di comunicare, di comunicarsi, se non giungendo alla massima deformazione, aggrappandosi all’estrema parodia.

È uno spettacolo visionario, bellissimo, nel cui non-senso c’è il senso del timore: la paura di non riuscire a dire ciò che si vorrebbe, a raccontarsi come si potrebbe. A definire, insomma, incasellare, la propria identità. Sessuale, anzitutto, e parallelamente emotiva. Per essere uditi, quindi capiti, dagli altri. Senza la scorciatoia del clichè, l’escamotage parossistico, il mezzuccio della macchietta: ché un solo tratto, caricaturale, non li supplisca tutti, in un calderone di stereotipi sregolati e oltraggiosi, corroborati da una comicità grottesca, debilitati da un impulso autolesionista.

Tra cambi di sesso volontari e obbligati, in questo teatro dell’assurdo che è fatto di musica e latrati, di favola e d’orrore, dolci pene e peni e seni posticci, una sali-scendi d’amore e turpiloquio, Colette Magny in “Melocoton”, il brano che fa da sottofondo allo spettacolo, canta e spiega, in certo modo, il copione di Copi, ripetendo: “J’en sais rien, viens, donne-moi la main”. Non so nulla, vieni, dammi la mano. Come a dire non chiedermi niente, non so dirti chi sono. So darmi come sono. So essere solo, insomma, e perdona s’è poco, me.

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