C’è il boss spietato con i suoi temibili (e orribili) compari. Ci sono i morti ammazzati, il popolo dei Quartieri Spagnoli, la polizia che indaga. Ma “Nel nome dello Zio” (Guanda, in uscita il 6 settembre) esordio nella narrativa di Stefano Piedimonte, 32 anni, cronista del Corriere del Mezzogiorno, non è un thriller: è un esilarante trattato sulla camorra vista attraverso la lente deformante del Grande Fratello. Perché si ride, e di gusto, leggendo delle traversie di Anthony, piccolo spacciatore spedito come concorrente alla più trash delle trasmissioni televisive allo scopo di comunicare dallo schermo con il superboss latitante.

E, nel solco della migliore satira, si scoprono usi e costumi dei moderni “malamente”: umani, troppo umani anche loro, dunque soggetti alle peggiori abitudini. Tipo non perdere una puntata della trasmissione che, curiosa coincidenza, fa da sfondo anche a “Reality” (nelle sale da fine settembre), l’ultimo film di Matteo Garrone, il pluripremiato regista di Gomorra. Ma libro e film hanno in comune solo il riferimento al GF. E gli uomini di panza, intesi come sovrappeso. Ciccioni, a giudicare dal trailer, sono parenti e amici del pescivendolo che nel film si crede sotto esame del Grande Fratello. Decisamente obeso è Peppino “o’ Fetente”, personaggio chiave del romanzo, che in un seminterrato dei Quartieri prepara Anthony alle selezioni per lo show a suon di sberle e lezioni di danza su musica “frizzantina”. Ma anche di poesie per colpire i selezionatori e i futuri coinquilini: “haiku”, brevi composizioni giapponesi. “Peppino le aveva chiamate “poesie per coglioni”. Diceva che erano brevi, molto facili da memorizzare, e quindi se non ne avesse imparate almeno dieci gli avrebbe ustionato le piante dei piedi con le cicche di sigaretta”.

“‘O Fetente”, detto anche “il Ciccione”, è solo il primo di una galleria di personaggi indimenticabili: a cominciare dallo Zio, il boss innamorato della conduttrice del GF: uno che pur provenendo da una famiglia umile e onesta, “in pochi anni, anche senza una tradizione alle spalle, era riuscito a scalare posizioni e a raggiungere i vertici del clan”. Sua moglie Gessica, che beve solo champagne Cristal e legge i romanzi di Zafòn. Senza tralasciare i “mostri” protettori del boss: Alberto “‘o Malamente”, Germano “Spic e Span”, Sandruccio “la Zitella”, Pasquale “Bruciulì”, Biagio “‘o Femminiello”. “Cinque mostri, cinque volti rovinati dalla bruttezza innaturale che infesta gli animi violenti: quella che si sviluppa di anno in anno, di ora in ora, di carcerazione in carcerazione sulle facce di chi vuol trasmettere coscientemente un messaggio prima di ogni altra cosa: “Attenzione, sono un criminale”. Ma non tutto, nel romanzo, è parodia: qua e là Piedimonte inserisce informazioni autentiche su come la camorra controlla piccoli e grandi traffici. Per esempio quando illustra il lavoro di Totore Telecòm, fine conoscitore dei sistemi per frodare la pay tv e organizzatore di proiezioni clandestine dei match calcistici: “Anche su quello c’era da lucrare parecchio: una partita del Napoli proiettata in un sottoscala, con duecento spettatori stipati come sardine a quattro euro l’uno, significava ottocento euro esentasse guadagnati praticamente senza muovere un dito. In periodo di campionato lo scherzetto tornava buono per distribuire qualche soldino alle famiglie degli affiliati detenuti”.

L’idea stessa del romanzo, racconta Piedimonte, gli è venuta da un fatto di cronaca seguito per il giornale: l’arresto del boss Antonino Iovine. “Mi raccontarono, i poliziotti, che arrivarono a lui intercettando le telefonate di una famiglia vicina al clan. Lo presero perché voleva un panettone con l’uva passa. La polizia non aveva nessuna certezza che lui fosse lì, ma stavano intercettando la famiglia che lo ospitava nella villa. Un giorno uno della famiglia disse al telefono che dovevano procurarsi un panettone con l’uva passa. Come mai ‘sti vizi?, si chiesero. Un panettone a metà novembre? Fecero irruzione e lo trovarono”. Di sé Piedimonte dice che probabilmente non è un bravo giornalista esperto in camorra: “Quello che mi interessa non sono i grandi traffici o le dimensioni del fenomeno, ma l’intimità, la vita privata dei criminali: che cosa mangia un killer? che cosa guarda in tv un pusher?”. Sarà, ma grazie a questa sua passione per dettagli apparentemente minori, ha scritto un affresco molto credibile della criminalità napoletana. La realtà, del resto, supera spesso la fantasia: lo avevamo già capito scoprendo che la pacchianissima villana dove è ambientato “Qualunquemente”, il film di Antonio Albanese, non era frutto di uno scenografo particolarmente creativo ma è la vera abitazione di un’autentica famiglia. Resta un’ultima curiosità: il Grande Fratello. Appassionato anche di quello, magari anche solo dal punto di vista del cronista-antropologo? “No. Ho seguito, un po’, solo il primo, quello con Taricone: ero incuriosito dal napoletano e volevo vedere chi sarebbe impazzito per primo. Ma, lo confesso, soprattutto miravo ad avere un argomento di conversazione con la ragazzina che corteggiavo all’epoca”.

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