No, non è una provocazione, ma è il risultato di riflessioni date dall’esperienza personale e clinica nel lavoro con uomini che hanno agito dei comportamenti violenti all’interno delle relazioni affettive e che, ad un certo punto della loro vita, sono stati in grado, a modo loro, di chiedere un aiuto per interrompere la violenza agita.

Dare un’etichetta è semplice, veloce e rassicurante, ma implica un vero e proprio salto mortale del pensiero. Il termine maltrattante (o violento) non è altro che appunto una etichetta con la quale si riduce la complessità di una persona identificandola  con quello che è stato il suo comportamento, ingabbiandola in esso, mentre, nel mio lavoro, ciò che mi sostiene è proprio il sapere che l’uomo può, potenzialmente,  essere altro da ciò che ha esternato  fino a quel momento. Sono convinto che il comportamento violento sia espressione di un malessere riconducibile, ma non riducibile a ciò che viene messo in atto ossia il pugno, lo schiaffo, il calcio o l’insulto.

Parlare di uomini che agiscono comportamenti violenti è sicuramente una terminologia che io preferisco e che utilizzo,  anche se inevitabilmente scomoda per la sua lunghezza, ma è più corretta, rispettosa ed aderente al reale perché si  mette l’accento su ciò che è stato maltrattante ossia l’azione.

Coordino dal 2009 a Firenze la prima Associazione in Italia che si occupa di uomini che agiscono violenza ed il suo nome è Centro di Ascolto Uomini Maltrattanti (C.A.M.) e quindi è opportuno che in questo articolo chiarisca che io qui esprimo una posizione netta che comunque è solo la mia posizione personale e non è necessariamente indicativa del pensiero del Centro di cui sono  solo una delle tante anime. Il C.A.M. non ha sottovalutato l’importanza che ha avuto chiarire, sin da subito, nel nome l’utenza alla quale si rivolge, essendo un’ utenza che di suo tende a minimizzare molto gli agiti violenti e ad autogiustificarsi. Io però sono convinto che l’utilizzo del termine maltrattante o violento non sia funzionale e mi ponga dei grossi limiti nella relazione di aiuto che cerco di instaurare.

Accogliendo un uomo, con il suo bagaglio di emozioni di rabbia, paura, imbarazzo e disconoscimento di ciò che ha fatto, nell’ evidenziare, sin da subito, che lui ed il suo comportamento sono cose ben distinte ho trovato il migliore alleato per dare alla persona possibilità di cambiamento. L’uomo non si sente giudicato, non si sente etichettato e si dà e mi dà più facile accesso all’ascolto. E’ così più facile che egli cessi di agire i comportamenti violenti di cui si è reso responsabile nei confronti della partner e/o dei figli.

D’altronde credo che ognuno di noi possa aver avuto esperienze in cui l’essere “catalogato” abbia creato del fastidio e dell’insofferenza e siamo d’accordo che, parlando di violenza, siamo in un campo molto più complesso e carico di attenzioni obbligate, ma i principi alla base del ragionamento sono, a mio avviso, gli stessi.

Deve necessariamente comunque sempre essere ben chiaro che il comportamento violento è indiscutibilmente condannato ed è un passaggio delicato perché l’uomo può credere di ricevere una qualche sorta di assoluzione. L’obiettivo non è assolvere, ma comprendere in modo che si maturi una presa di coscienza della propria responsabilità nell’aver scelto di agire violenza e di non esserne stati obbligati da forze superiori di cui non si ha il controllo e di conseguenza si può comprendere che delle alternative alla violenza ci possono essere, se davvero lo si vuole. Un comportamento violento non è rappresentativo dell’essere della persona, anche se, indubbiamente, figlio della sua storia, ma è rappresentativo della sua capacità di scegliere o meno di rompere delle catene che lo limitano e che gli danno una illusione di potere quando invece ciò che ottiene dall’altro è solo paura.

Non chiamiamoli maltrattanti, non chiamiamoli violenti, chiamiamoli con parole che non mettano sbarre di ferro a prigioni di carta.

di Mario De Maglie

Articolo Precedente

Rai, la fiction e la donna

next
Articolo Successivo

Buthina, prima regista in Palestina: “Così raccontiamo il nostro tempo”

next