Pensai immediatamente a lui, a Jaime Garzón, quando anni fa, su Rai International, mi trovai per la prima volta di fronte all’onorevole Concetto Laqualunque, il personaggio che Antonio Albanese interpretava in “Che tempo che fa”. O meglio: pensai a Godofredo Cínico Caspa, l’untuoso e molto sordidamente “moderno” personaggio dell’estrema destra colombiana – un avvocaticchio diventato deputato grazie ai soldi dalle formazioni paramilitari – che Jaime aveva inventato, alla metà degli anni ’90, per la televisione colombiana. Un vecchio ricordo. Ancora molto vivo, ma vecchio, perché Jaime Garzón Forero era, allora, già da molto tempo morto. Morto ammazzato, quando ancora non aveva compiuto i 39 anni. E perché, con lui, erano da molto tempo scomparse – dagli schermi tv, se non dalla memoria collettiva – tutte le sue creature: Godofredo Cínico Caspa (caspa in spagnolo vuol dire forfora), la cuoca del palazzo presidenziale, Dioselina Tibaná (un concentrato di popolare saggezza), il cronista d’assalto Frankenstein Fonseca, Néstor Eli, il portinaio dell’Edificio Colombia…

Accadde la mattina del 13 agosto 1999. Cinque colpi sparati a bruciapelo, mentre si recava a una stazione radio per registrare un programma. E ieri, nel celebrare il tredicesimo anniversario della sua scomparsa, la pagina web di BBC-Mundo ha usato un titolo quanto mai appropriato: “Il giorno che, in Colombia, uccisero la voglia di ridere”. Appropriato perché, Jaime Garzón era, in effetti, un buffone. Un grande, immenso, popolarissimo buffone che aveva saputo deridere e scarnificare il potere. E che dal potere è stato, per questo, assassinato.

Tredici anni non sono stati sufficienti – cosa non sorprendente, visto che non pochi definiscono la Colombia “il paese dell’impunità” – per arrivare alla verità. O, almeno, a tutta la verità. Nel 2002, per il suo omicidio è stato condannato in contumacia a 38 anni di carcere Carlos Castaño, uno dei fondatori delle AUC (Autodefensa Armada Colombiana, una delle più feroci formazioni paramilitari che mai abbiano agito sul pianeta Terra), a sua volta morto nel 2004 in una faida interna al gruppo. Ma il processo è ancora aperto. Tra qualche mese finirà (forse) davanti ai giudici, per lo stesso delitto, anche Diego Fernando Murillo Bajarano, noto come “don Berna”, che attualmente si trova, condannato a una trentina d’anni per narcotraffico, negli Stati Uniti. E che già ha rivelato alla commissione creata in base alla legge “Justicia y Paz” (quella che, lungo linee condannate da molte organizzazioni per la difesa dei diritti umani, ha, regnante Àlvaro Uribe, regolamentato il disarmo delle forze paramilitari di destra) come la trama che ha ucciso il giullare Jaime Garzón avesse, in realta, le sue ramificazioni nel cuore potere “ufficiale”. Ovvero: nella cupola militare e nel DAS (Departamento Administrativo de Seguridad, oggi sostituito, per la sua impresentabilità, da una nuova agenzia) il cui direttore era, allora, Juan Miguel Narvaez (poi diventato un uomo di Uribe).

Jaime Garzón faceva ridere. E per questo faceva paura. A tutti: ai politicanti ed ai criminali che li finanziavano. In qualche misura, paradossalmente, faceva paura anche a se stesso, visto che proprio da Godofredo Cínico Caspa – dai molti Godofredo Cínico Caspa che popolano i panorami della politica colombiana – è stato in fondo ucciso. O, se si preferisce, da quella tenebrosa eppur visibilissma linea di potere che, per molti anni, in Colombia, ha unito i macellai delle formazioni militari, il narcotraffico ed una routine politica che riproduce se stessa al fuoco della violenza armata.

Uno degli ultimi personaggi inventati da Jaime – forse quello che il suo pubblico ha più amato – era stato Heriberto de la Calle, il lustrascarpe intervistatore. Ed era stato in questa veste che il “buffone” s’era, in qualche misura, fatto più politico, incominciando a lavorare, da gran giullare, più apertamente per la pace. Erano gli anni del presidente conservatore Andrés Pastrana e delle speranze accese dai negoziati tra governo e Farc – in realtà mai avviati perché frustrati dalla pratica dei sequestri delle Farc e dalla violenza paramilitare – allestiti nel Caguán (una zona all’uopo demilitarizzata grande come la Svizzera). Garzón fu a suo modo parte di quella illusione, lustrando le scarpe, intervistando e deridendone i protagonisti. E forse proprio questo fu quello che decretò la sua condanna a morte. Il giorno dopo il suo omicidio aveva combinato, in una località segreta, un’intervista – con spazzola, lucido e tutto il resto – proprio con Carlos Castaño. Ma non è mai arrivato a lustrare gli stivali (e a denudare l’anima) del suo assassino.

Il giorno del funerale, svoltosi in un cimitero ad una ventina di chilometri a nord di Bogotà, una folla immensa accompagnò il suo feretro. Davanti a tutti, alcune centinaia di Heriberto de la Calle. Vale a dire: tutti (o quasi) i “veri” lustrascarpe della capitale, venuti a rendere omaggio allo straordinario pagliaccio che aveva regalato loro, indirettamente, visibilità e gloria. Jaime sapeva che lo avrebbero ammazzato. Me lo aveva detto nel marzo del 1997 quando lo avevo intervistato nel suo ristorante preferito, El Patio, nel quartiere de La Macarena. E per questo già aveva scelto la canzone che lo avrebbe accompagnato alla tomba. Era una salsa che allegramente diceva: “Quiero morirme de manera singular, con un adios de carneval…”. Davvero la Colombia ha, quel giorno, “perso la voglia di ridere”? Io spero di no. Spero non per sempre.

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