I ruoli dei due protagonisti sono delineati. Da una parte c’è Vladimir Putin, tornato a marzo alla guida del Paese e in questa vicenda perfettamente calato nella parte del “maschio alfa”, come fu chiamato nel cablogrammi statunitensi diffusi da WikiLeaks. Tanto da ammettere, scatenando la reazione della Georgia, che la Russia aveva già pronti fa tempo i piani per l’intervento che nell’agosto del 2008 sfociò in una guerra tra Mosca e Tbilisi. Dall’altra c’è Dmitry Medvedev, secondo nel tandem al potere al Cremlino, nonostante la parentesi presidenziale tra il secondo e il terzo mandato putiniano. A dividere la coppia è ‘Il giorno perduto‘, un documentario di 47 minuti diffuso in rete il 5 agosto da un autore anonimo per commemorare il quarto anniversario della guerra dei cinque giorni per lo status dell’Ossezia del Sud, regione autonoma filo-russa della Georgia.

A fare discutere sono i sette minuti di trailer che in questi giorni stanno girando su Youtube e nei quali alcuni alti ufficiali delle Forze armate si lasciano andare a commenti contro la gestione del conflitto di Medvedev, accusato di attendismo e tentennamenti. Il giorno perso che dà il titolo al filmato è quello che Medvedev, allora presidente della Russia e comandante in capo, fece passare prima di inviare le truppe in Ossezia del Sud, e poi fin dentro il territorio georgiano, in risposta, dopo giorni di tensione, all’attacco tra il 7 e l’8 agosto dell’esercito di Tbilisi contro la regione e in particolare contro Tskhinvali, capoluogo dove ha sede il governo separatista filo-russo. Per l’ex capo di Stato maggiore russo Yury Baluyevsky, per Marat Kulakhmetov, poi al comando delle truppe russe di peacekeeping nella regione, così come per altri alti ufficiali, senza l’indecisione di Medvedev molte vite sarebbero state risparmiate. Ricorda ancora Baluyevsky che il “calcio nel sedere” che sbloccò la situazione fu dato dall’allora primo ministro Putin, in quei giorni a Pechino per partecipare alla cerimonia d’apertura dei Giochi olimpici. Su come si sia arrivati all’intervento le versioni di Putin e Medvedev divergono. Parlando mercoledì proprio da Tskhinvali, applaudito dal pubblico, Medvedev ha ricordato e difeso le “decisioni difficili” prese da solo in quell’agosto del 2008.

L’indomani è arrivato il commento del capo di Stato. Le truppe russe si mossero secondo un piano di contrattacco ben studiato che secondo Putin non era segreto, ma deciso già tra la fine del 2006 e l’inizio del 2007 e in base al quale furono addestrate le milizie ossete. Inoltre, smentendo la versione di Medvedev secondo cui i due si sentirono soltanto dopo lo scoppio del conflitto, l’uomo forte di Mosca ha detto di essere stato in contatto con il suo predecessore per almeno due volte nei giorni precedenti. Affermazioni sufficienti a provocare la reazione georgiana. Tbilisi si chiede chi possa essere considerato ora l’aggressore e cerca di allontanare da sé i risultati del rapporto dell’Unione europea del 2009 che attribuiva al governo filo-occidentale del presidente georgiano Mikheil Sakaashvili la responsabilità dello scoppio del conflitto, ma accusava Mosca di provocazioni e uso sproporzionato delle forza.

Trascorsi quattro anni dal conflitto, concluso con la vittoria russa e l’indipendenza di Ossezia del Sud e Abkhazia dalla Georgia, riconosciuti soltanto da Mosca, il documentario, scrive Gazeta.ru, è forse l’unico argomento di discussione. La guerra non è più al centro della propaganda. Se a livello internazionale il riconoscimento dei due Stati è impantanato, anche tra i russi la causa non è più sentita come un tempo. Secondo un sondaggio del Lavanda Center pubblicato, solo il 42 per cento dei russi è per l’indipendenza delle due regioni, contro il 53 per cento di un anno fa. Mentre un 35 per cento vede con favore l’annessione alla Russia. La percentuale dei russi che ritiene che la guerra abbia portato benefici al Paese è scesa invece al 28 per cento. “Oggettivamente il risultato degli ultimi quattro anni è stato il mantenimento della situazione precedente. La Russia dà sostegno finanziario alle due regioni, che non fanno parte della Federazione, esattamente come prima del conflitto”, spiega l’editoriale di Gazeta. I commentatori internazionali scrutano invece le ipotetiche crepe al vertice del Cremlino. C’è battaglia tra le rispettive aree, non tanto tra i due leader in persona, ha spiegato al Financial Times Gleb Pavlosky, ex consigliere di Medvedev. “La lotta è per accaparrarsi risultati politici e il successo del conflitto contro la Georgia è uno di questi”, ha spiegato sottolineando come la prova per il premier sarà l’autunno, quando le manifestazioni contro Putin potrebbero riprendere e il governo dovrà dare prova di sapere gestire l’economia. “Putin si sente sotto pressione e sta cercando di rafforzare la propria posizione attraverso l’apparato di sicurezza. Facendo questo potrebbe cercare di liberarsi di Medvedev, limitandone le manovre e facendolo apparire come un premier senza autorità”, ha spiegato a Bloomberg l’analista politico Dmitry Oreshkin. Il “maschio alfa” potrebbe non tollerare nessuno a insidiare il suo ruolo di capobranco.

di Andrea Pira

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