Sembra uno di quei “clerici vagantes” che popolavano il basso Medioevo vagabondando per l’Europa a caccia di lezioni universitarie. Camillo Falco, 25 anni, un dottorato in fisica e un lavoro a fianco del premio Nobel Carlo Rubbia, non vuole sentir parlare di “fuga dei cervelli”. Per lui spostarsi da una parte all’altra dell’Europa è fisiologico. Inghilterra, Svezia, infine Germania. “Ci sono certamente storie positive di ricercatori rimasti sempre nella stessa università. Credo però che ci sia anche bisogno di esporsi a confronti con stimoli e difficoltà diverse. Nel mio caso, a muovermi è una curiosità, professionale e culturale”. Aggiunge ironico: “Una fuga che si rispetti prevede che qualcuno ti insegua, ma qui non ti insegue nessuno, anzi. Ti lasciano proprio andare.”

Dal canto suo, piuttosto, si dice entusiasta del nuovo lavoro tedesco presso l’Institute for Advanced Sustainability Studies, progetto nato da una conferenza di premi Nobel dedicata al concetto di sostenibilità. Il suo team, diretto dal professor Rubbia, Nobel per la fisica nel 1984, si occupa di sviluppo di tecnologie sostenibili per la produzione, il trasporto e la conservazione di energia. “Il bello di lavorare con lui è che non ti tratta come l’ultimo arrivato, ti consulta e si interessa alle tue opinioni. Ognuno è responsabile al 100% del proprio progetto, e deve renderne conto”. La sua carriera di esule è iniziata presto, al quarto anno delle superiori, con una borsa di studio che gli ha cambiato la vita e che l’ha fatto entrare in uno dei “Collegi del Mondo Unito”, una rete sparsa in tutto il mondo e misconosciuta ai più, la cui peculiarità è proprio il melting pot culturale: in ogni sede sono ammessi circa 200 studenti provenienti da una novantina di paesi diversi.

Per un giovane come Camillo spostarsi da Cardito, provincia di Napoli, a Duino, provincia di Trieste, è stato un passo ben più lungo di 600 chilometri: “Dall’università in poi, per una commistione di scelte professionali e personali, mi sono ritrovato a non tornare più in Italia”. L’esperienza di lavoro attuale è unica, ma il posto di lavoro, naturalmente, è precario: “L’istituto non è permanente – spiega Camillo – è un progetto ministeriale di 5 o 7 anni. Poi, in base a quanto sarà prodotto, si deciderà se prolungare la sua esistenza o no”. L’eventualità di cambiare nuovamente lavoro non lo turba. Non associa la precarietà all’incertezza e al sacrificio, ma a nuove possibilità. Certo l’eccezionalità delle sue competenze aiuta, così come la scelta di non porre limiti territoriali alla provvidenza. Per quanto forte sia la nostalgia di casa, Camillo non pensa di tornare, per il momento. “Sta bene così perché a parer mio la figura stessa del ricercatore non prevede stabilità nei primi anni di carriera: è più un vagabondaggio per guadagnare esperienza”. Qui Camillo ne ha per i baroni delle università italiane, generalmente poco esposti alle novità scientifiche e alla mobilità per salvaguardare i propri privilegi. Così la ricerca italiana rimane piccola, a suo dire. E poi c’è un altro punto: “Prendi l’aspetto economico: qui un ricercatore guadagna circa il doppio che in Italia, esentasse. Questo è indubbiamente un deterrente a tornare”. Nessun dubbio, quindi. Camillo resta a lavorare in Germania, a scoprire nuove possibilità. Ma fa una richiesta: smettere di guardare agli italiani all’estero come un patrimonio perso. Piuttosto, come una risorsa da valorizzare. E creare attrattive che spingano i talenti stranieri a muoversi in Italia. “Sarebbe bello imparare ad attrarre cervelli indipendentemente dalla nazionalità. Solo così non sarà più un’emigrazione, ma un vero scambio”. Non più fughe, quindi, ma cervelli in transito per l’Europa.

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