“Senza volerlo, oggi i migliori alleati delle cattive multinazionali sono i bravi ambientalisti”. Affermazione paradossale, come spesso è Antonio Pascale, che da anni conduce una meritoria battaglia contro il passatismo nostalgico che avvolge l’Italia in molti settori e che sembra aver trovato nel cibo il suo principale veicolo simbolico. Pascale, scrittore di romanzi e saggi, è ispettore agrario, lavora al ministero delle Politiche agrarie e forestali da 22 anni e maneggia con grandi capacità affabulatorie una materia complessa, inquinata dalla retorica antimodernista di una sinistra retrograda spesso alleata alla destra reazionaria. Insieme a lui combattono strenuamente la battaglia antiretorica un manipolo di coraggiosi che hanno osato sfidare le retoriche ambientaliste e il culto di Slow Food e dintorni. In prima fila l’ottimo Dario Bressanini.

L’ultimo libro di Pascale, un volumetto agile di un centinaio di pagine, si chiama “Pane e pace” e va letto: non perché sia tutto oro colato, ma perché mette in moto il cervello, sfata luoghi comuni, obbliga a riconsiderare certezze e a rimettere in discussione presunte verità consolidate. Con il rischio, sempre in agguato, che la contestazione eretica di un modello e di un’omologazione, si trasformi in un nuovo conformismo. Prendiamo la “tipicità”. In Italia da tempo ci riempiamo la bocca, e speriamo di riempirci anche il portafoglio, con i “prodotti tipici“. Però non sappiamo che “il Parmigiano viene prodotto (in parte) con latte estero e il prosciutto con maiali olandesi“. Non sappiamo che la nostra amata porchetta di Ariccia è fatta “con maiali spagnoli”. Che, per “produrre tipico, importiamo il 95 per cento della soia”. E la pasta? La nostra amata pasta italiana? Beh, “è prodotta in larga parte con grano canadese“. Non per convenienza o cattiveria, ma perché contiene alte quantità di glutine, proteina essenziale per pastificare.  Allora il sospetto, come scrive Pascale, è che spesso il tipico sia “un prodotto che assomiglia terribilmente ad altri ma che rispetto a questi altri ha un prezzo più alto”.

Pascale, per parlarci di cibo, progresso e sapore nostalgico, sceglie tre foto, anzi quattro: quella del nonno contadino, quella del padre, ispettore agrario di Caserta, la sua e quella dei due figli. La prima foto è quella più indicativa: rappresenta un uomo di 46 anni, che ne dimostra una sessantina. Nonno Antonio “produceva in regime biologico“. Necessariamente, s’intende, che si era a fine Ottocento. Ed era anche a chilometro zero, come si usa ora: “Non si muoveva mai di casa”. Risultato? “Faceva la fame”. Prendendo a pretesto il nonno, Pascale racconta, dati alla mano, del progresso dell’agricoltura italiana e mondiale e di come la scienza abbia migliorato la qualità della vita dei contadini e dei consumatori, incrementando la produttività ma anche la sicurezza. Inutile attardarsi in nostalgiche rievocazioni di un presunto paradiso.

Pascale racconta anche di quando la sinistra era alla testa dell’innovazione e confidava nella tecnologia e nel progresso per migliorare l’uomo e il mondo. Poi, improvvisamente, si è accodata alla destra e alla Lega nella conservazione, nel cavalcare quell’inquinante culturale che è il sapere nostalgico. Unito a una visione manichea del mondo, che rende tabu alcune parole. In cima a tutte, quella più detestata e misconosciuta: ogm. Pascale smonta molte delle obiezioni che vengono mosse agli organismi geneticamente modificati. E si può non essere d’accordo con lui, ma per esserlo è obbligatorio studiare, conoscere l’argomento, affidarsi a fonti attendibili, non evocare spauracchi, non ricattare emotivamente, non affidarsi a slogan e luoghi comuni privi di valore scientifico e razionale. Difficile, ma necessario, se si vuole crescere e uscire dall’infantilismo culturale nel quale versa l’Italia da troppo tempo.

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