Perché è tanto importante l’unione fiscale europea? Perché autorità monetaria e politica devono cooperare, soprattutto (ma non solo) nei momenti di crisi. Nell’Eurozona, però, ci sono una banca centrale e 17 stati membri ed è pressoché impossibile mettere tutti d’accordo. Così la Bce rimanda gli interventi “non convenzionali” all’Efsf (European financial stability facility). Con un effetto paradossale: i paesi non vogliono ricorrere al Fondo perché temono un effetto reputazionale negativo. E un aggravarsi dello spread dei tassi del loro debito.

di Tommaso Monacelli* (Fonte: lavoce.info)

Si dice spesso che la gamba mancante dell’euro è quella dell’unione fiscale. Ma in che senso questo sia tecnicamente vero non è mai spiegato con chiarezza. Lo è, secondo me, nel senso seguente: il problema centrale che in questa fase mina alla base l’equilibrio stesso della moneta unica in Europa è la totale mancanza dicooperazione tra autorità monetaria e fiscale. Avere un’unione fiscale, quindi, più di ogni altro aspetto (quello dei trasferimenti tra stati, dell’assicurazione, etc.) risolverebbe questo problema.

Governi e Banca centrale

La crisi dei subprime negli USA ci ha insegnato (non fosse sufficiente la teoria economica) che in una fase acuta di crisi finanziaria la cooperazione tra banca centrale e governo è essenziale.  Avranno commesso errori nel merito (forse), ma durante quel periodo era ricorrente vedere Paulson e Bernanke annunciare misure sulle quali nessuno dubitava ci fosse totale armonia. 

In Europa il quadro è opposto. Bce e governi nazionali sembrano pugili che si affrontano sul ring, e giocano “a chi cede prima”, minando alla radice la credibilità stessa dell’architettura istituzionale dell’Euro. Ogni decisione della Bce di Draghi sembra concludersi con il rimandare la palla nel campo dei governi membri (adottare il fiscal compact, fare le riforme strutturali, ricorrere all’Efsf, etc.).  D’altro canto, i paesi membri ritengono di non poter fare di più se gli spread continuano a essere così alti, invocando indirettamente un intervento risolutore della banca centrale. La teoria economica definisce questo un “game of chicken”. E ci insegna una cosa semplice: che il suo esito non è ottimale.  Anzi, in questo caso potrebbe essere disastroso. A “cedere prima” sarà semplicemente l’euro, che in un tale contesto non può continuare ad esistere.

Un esempio della corrosiva mancanza di cooperazione tra politica monetaria e fiscale è nascosto nelle pieghe dell’ultima decisone della Bce. Uno dei motivi addotti dalla Bce per rimandare (o non attuare) un programma non convenzionale di acquisto di titoli è che esiste l’Efsf; quindi i governi devono seguire quella strada maestra per poter sperare di comprimere gli spread.

Chi prende i soldi dall’Efsf si gioca la faccia

Ma ovviamente la Bce finge di ignorare che ricorrere all’Efsf comporta un costo reputazionale molto alto per uno stato sovrano.  Paradossalmente, se uno stato dovesse ricorrere all’Efsf, il suo spread potrebbe salire, invece di calare. È lo stesso per questo motivo le imprese tendono preferibilmente a finanziarsi emettendo debito invece che attivi, nonostante che in molti paesi non sia vantaggioso in termini fiscali: perché emettere azioni, molte volte, vuol dire inviare un segnale ambiguo, possibilmente negativo sul proprio stato finanziario (se l’impesa ricorre al mercato vuol dire che le cose non vanno molto bene). Paradossalmente, un’impresa che raccoglie capitale emettendo azioni potrebbe vedere il proprio rating (il proprio “spread privato”) aumentare. Non sorprende quindi che sia la Spagna sia l’Italia abbiano per ora escluso di fare ricorso all’Efsf.  Ironicamente (ma logicamente), i paesi membri preferiscono non ricorrere all’Efsf proprio quando sarebbe più utile farlo, cioè quando la crisi è seria ma ancora, forse, non irreparabile.  Di fronte al disastro, ricorrere all’Efsf sarebbe ovvio, ma totalmente inutile.  Perché in quel caso l’entità degli aiuti necessari sarebbe insostenibile.

Dall’altro lato, allora, perché i governi nazionali hanno voluto l’Efsf? Lo hanno voluto per creare un involucro  presentabile attraverso il quale, di fatto, chiedere l’intervento della Bce. L’unico motivo per cui lo spread di un paese potrebbe calare in caso di ricorso al fondo è perché da lì in poi i mercati si aspettano l’intervento della Bce. Non male come pressione sulla banca centrale. Non sono sicuro che Draghi, nel suo insistere a gran voce che gli stati facciano ricorso all’Efsf, abbia pienamente anticipato questo aspetto.

Molti dubbi sul funzionamento del fondo

Incredibilmente, come debba funzionare il meccanismo dell’Efsf non è ancora del tutto chiaro. Per ora si sa che (i) uno stato richiede l’intervento del fondo; (ii) la concessione di un prestito è condizionato a una serie di misure (eccetto l’umiliante visita della troika, ma la differenza non è granché); (iii) il fondo può emettere titoli (usando come garanzia il capitale proprio) oppure finanziarsi dalla Bce. 

Il punto (iii), quello del rapporto tra Efsf e Bce, è quello cruciale, e guarda caso ancora non chiaro. Secondo alcune ipotesi, il fondo (se otterrà una licenza bancaria dai paesi sovrani) potrà chiedere finanziamenti alla Bce. Fornendo quali garanzie? Il capitale proprio? I titoli dei paesi stessi che si trova a dover salvare? Praticamente impossibile.  Perché nel caso in cui l’Efsf sia costretto a rivolgersi alla Bce, vorrebbe dire che l’entità dello sforzo di salvataggio è già pericolosamente grande.

In altri termini, l’esistenza stessa del fondo Efsf crea un gigantesco problema di adverse selection. Cioè: finiranno per rivolgersi al fondo solo gli stati nelle peggiori condizioni finanziarie.  Proprio quelli in grado di esercitare sulla Bce la pressione massima per evitarne il naufragio. 

Possiamo forse immaginare una sequenza: l’Italia chiede l’intervento dell’Efsf, quest’ultimo si rivolge alla Bce per finanziarsi, e la Bce si rifiuta di concedere il prestito? In un secondo gli spread sui titoli dell’Italia schizzerebbero a valori intollerabili, costringendo la Bce a intervenire, concedere all’Efsf un prestito ancora più grande, e per giunta a un paese il cui rating è appena vertiginosamente peggiorato.

Il game of chicken è questo: la Bce fa di tutto per apparire tedesca ed esercitare pressione sugli stati; gli stati, direttamente o indirettamente, rimandano questa pressione sulla Bce.

Perché abbiamo fatto l’Euro?

Si dirà: è ovvio che Bce e stati membri non riescano a cooperare. È difficile quando la controparte sono 17 paesi.  Un’eco di questo ragionamento era anche nelle parole di Draghi, quando accennava al fatto che definire misure non convenzionali di politica monetaria in un quadro come quello europeo è difficile, perché i paesi membri sono tanti, e i titoli dei diversi paesi hanno rischiosità diversa.  Non bisogna essere un economista, e neanche un trader di un wealth fund del Qatar, o del pension fund di Chrysler, per pensare: ma allora perché ve la siete imposta questa condanna dell’euro? 

Se ogni decisione è condizionata da una camicia di forza, dalla difficoltà intrinseca imposta dalla struttura peculiare di un’area economica con una banca centrale e 17 paesi membri; se è lo stesso Draghi a dire che questo rende tutto più difficile rispetto a quello che possono fare la Fed, la Banca di Inghilterra o la Banca del Giappone, non viene spontaneo chiedersi: ma perché state (stiamo) facendo tutto questo (cioè l’euro)? 

L’unica soluzione di fronte a questa oramai permanente crisi di fiducia nel sistema istituzionale dell’euro è di creare un sistema nuovo. In cui la cooperazione tra autorità monetaria e fiscale sia tra due istituzioni.  Quindi più facile e credibile. È questo il motivo principale per cui serve una unione fiscale.

Tommaso Monacelli è Professore Ordinario di Economia all’Università Bocconi di Milano.Ha ottenuto il Phd in Economia presso la New York University nel 1999, è stato Assistant Professor a Boston College dal 1999 al 2002, e Professore Associato di Economia Politica all’Università Bocconi. E’ research fellow di IGIER (Innocenzo Gasparini Institute for Economic Research della Bocconi) e del CEPR di Londra. Ha svolto attività di ricerca e consulenza anche per la Banca Centrale Europea e il Fondo Monetario Internazionale. I suoi interessi riguardano i campi della Macroeconomia e dell’Economia monetaria.

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