C’è Angelica, che ha una sartoria di successo, “e da poco ho persino fatto un abito a Usain Bolt”. E c’è Stefania, che studia in Italia ma che ha deciso di passare l’estate qui a lavorare proprio per le Olimpiadi e a racimolare qualche soldo in vista dell’autunno. Sono tanti e ne arrivano sempre di più. Gli italiani a Londra costituiscono ormai una delle più importanti comunità straniere della capitale britannica. Il consolato fa sapere: gli iscritti all’Aire, il registro degli italiani all’estero, solo a Londra sono quasi 50mila. Difficile fare un calcolo di quanti siano in realtà coloro che hanno lasciato lo Stivale per superare la Manica e rifugiarsi a più nordiche latitudini. Alcune stime parlano di almeno 250mila italiani a Londra. Tante storie, sicuramente uno spaccato di quella che è l’Italia e di quello che avrebbe potuto essere se tutti questi giovani fossero rimasti nella loro patria.

“Mio padre arrivò nel 1964, da Locorotondo (Ba), e da allora abbiamo sempre fatto vestiti – racconta Angelica Santoro, della sartoria Nino’s di Soho – vestendo sceicchi arabi e John Malcovich, Martin Scorsese e Robbie Williams. E persino Usain Bolt. Così, visto che ora il centro è vuoto a causa di queste Olimpiadi per le quali è stato fatto del terrorismo psicologico, almeno ci consoliamo sapendo che abbiamo vestito un grande campione”. A un chilometro di distanza, sotto il Big Ben, al centro stampa olimpico per tutti quei giornalisti che non vogliono o non possono andare a Stratford, c’è invece Stefania, 20 anni, romana, al primo anno di Lingue e interpretariato nella capitale inglese. “Ho mandato un curriculum tramite la bacheca dell’università e mi hanno chiamato. Guadagno 2.250 sterline per un mese e mezzo di lavoro, sei ore di impegno quotidiane. Certo, Londra mi intristisce con il suo clima e con il suo caos. Ma, di sicuro, non potevo trovare di meglio per questa estate”.

Soho era, fino agli anni Cinquanta, il quartiere italiano per eccellenza. Ora rimane qualche storica trattoria o il mitico Bar Italia, gestito sempre da italo-inglesi ma con personale kossovaro. Qui, comunque, arrivano e passano gli italiani che si sono appena trasferiti, per vincere la nostalgia, bere un caffè e cercare una “Little Italy” di cui poco è rimasto, a causa prima dei cinesi che negli anni Sessanta presero possesso di Soho e ora della comunità gay che ha fatto di questo quartiere la sua Mecca. A poca distanza dal Bar Italia, qualche bottega che vende solo prodotti italiani, dai biscotti fatti da Antonio Banderas alla pasta di una nota azienda napoletana, dalla mortadella di Bologna alla bottarga sarda. Anche qui, soprattutto di sera, è facile trovare gli italiani “londinesi” che vengono a organizzare una cena dai sapori di casa.

Ma non ci sono solo bar e botteghe. Gli italiani a Londra si incontrano anche sulla comunità virtuale degli Italians of London, un sito con oltre 15mila iscritti che organizza aperitivi, mostre, eventi e rassegne cinematografiche. Poi ci sono gli italiani altolocati dell’Istituto di cultura, quelli che vanno solo nei ristoranti di Kensington in compagnia degli sceicchi, quelli che vanno alle cene dell’ambasciatore Alain Giorgio Maria Economides e quelli che si fanno notare per le Ferrari che sfrecciano per Chelsea. Dopo tanti peccati di lusso e lussuria, c’è chi va anche in chiesa e frequenta la parrocchia di Saint Peter a Clerkenwell, gestita dal parroco don Carmelo di Giovanni. O c’è chi emula quei tanti attori, cantanti, sportivi italiani che hanno fatto di Londra la propria residenza. Per divertimento e maggiori opportunità, è vero. Ma anche per questioni fiscali.

Eppure, qualcuno non si limita a sfilare in Lamborghini ma fa anche qualcosa di buono, per gli altri. Insomma, non tutti gli italiani di successo lavorano per le multinazionali della finanza della City. Come Tena Prelec, italo-croata ma più italiana della pizza e del mandolino. “Collaboro con una associazione per la libertà di informazione, Index on Censorship. In passato ho lavorato a un progetto sulla Bielorussia, la ‘zona del silenzio’, ora mi sto occupando parecchio di Russia, sono entrata in contatto con l’avvocato delle Pussy Riot e con la rock star/attivista per la difesa dei diritti umani Yury Shevchuk. Tante le soddisfazioni, anche se il mio vero lavoro è per un’agenzia che ricerca, divulga e promuove l’azionariato dei dipendenti nelle aziende in cui operano”. Difficile spiegarlo a chi crede che tutti gli italiani a Londra lavorino nelle pizzerie.

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