Prendendo spunto da un interessante articolo pubblicato qualche giorno fa sul Corriere della Sera online sulla reputazione digitale, dove si dava conto del parere di alcuni esperti sulla crescente popolarità di indici di influenza sui social media, come Klout o Kred (misure del potere di influenza in rete di un’identità digitale, personale o aziendale, attraverso degli algoritmi), insieme ad Andrea Barchiesi, Amministratore Delegato di Reputation Manager, società di ingegneria reputazionale, abbiamo pensato che valesse la pena confrontarsi ed approfondire il tema visibilità, reputazione e influenza nei social network.

Abbiamo trovato condivisibili le parole dell’analista americano che chiudono il pezzo: “Siamo davanti a una nuova era del passaparola: una miniera di opportunità per il marketing” conferma Brian Solis, autore di The rise of digital influence. Ma attenzione, sottolinea il social media analisyt di Altimeter Group: “Questi software non misurano affatto influenza, piuttosto capitale sociale”. Le aziende, spiega a “la Lettura” l’analista americano, si stanno lanciando nella corsa per accaparrarsi gli influencer dei propri settori di riferimento, ma sarà un disastro se credono di poter trarre profitto da questo nuovo modello di marketing affidandosi acriticamente a un algoritmo”. Sono servizi che hanno del potenziale, quindi, ma “il problema è che molti brand stanno scambiando un punteggio per capacità di persuasione. Influenza e leadership sono cose che vanno conquistate, esattamente come avviene nella vita reale”, argomenta Solis.

Il problema è proprio legato al fatto che molti brand stanno scambiando un punteggio per capacità di persuasione.
Influenza e leadership sono cose che vanno conquistate, esattamente come avviene nella vita reale – ma forse non esattamente per le stesse ragioni che si possono derivare dal ragionamento sviluppato in precedenza. Ci occupiamo, Andrea come ingegnere ed io in quanto esperta di comunicazione, di reputazione digitale ormai da diversi anni e crediamo che nonostante l’interesse che l’argomento susciti nell’ultimo periodo (in cui sono apparsi, anche in Italia, molti nuovi concorrenti in questo business fino a poco tempo fa considerato “di nicchia”, nel grande mondo del web e dei social media), ci siano ancora diversi fraintendimenti e malintesi sul lessico stesso della reputazione online. Forse anche con la complicità involontaria di questi algoritmi che pretendono di ridurre a un valore numerico, unidimensionale e “chiuso” un fenomeno ben più complesso, come le analisi che conduciamo da tempo per i nostri Clienti si propongono di fare.

Un’imprecisione sottostante è ad esempio quella di parlare di “influenza” e influencer anzichè come andrebbe fatto, a nostro parere, più genericamente, di visibilità. Influenzare una persona vuol dire avere un impatto sicuro e diretto sul suo comportamento, visibilità più modestamente significa la “presa visione”, in inglese  la chiamano awareness, ovvero la consapevolezza dell’esistenza di una cosa.

Il punto è che oggi l’awareness non si può più costruire semplicemente con una campagna pubblicitaria tradizionale perché il comportamento delle persone che una volta definivamo come audience è cambiato radicalmente: non sono più passivi, scelgono le loro fonti di informazione in totale autonomia e nei tempi che ritengono più consoni al loro stile di vita, costruiscono il proprio palinsesto, si confrontano quotidianamente, senza contare che acquisiscono molte delle informazioni proprio nei social media, che hanno assunto una rilevanza in termini di tempestività delle news, autorevolezza e credibilità  che talvolta superano i classici mezzi di informazione. Così oggi la conoscenza di un prodotto o di un servizio commerciale si acquisisce anche utilizzando internet: i social network insieme ai motori di ricerca forniscono risposte puntuali ed esaustive, e lo stesso “word of mouth”, ovvero il passaparola, nei social media ha trovato terreno molto fertile. Tutte queste considerazioni non toccano però ancora la sfera dei cosiddetti influencer, che sono ben altra cosa rispetto ai fan di Facebook o ai follower di Twitter

Non si può giudicare l’influenza di un Brand (o anche di una persona) se non si è sicuri di aver calcolato correttamente gli influencer – e di averlo fatto su parametri ben più complessi del semplice numero di “follower” o “fan”: per fare un esempio, bisognerebbe tenere conto della qualità delle interazioni, della tipologia dei punti di contatto (più potenti sono coloro che hanno un proprio mezzo, come un blog o un canale YouTube), del tipo di azione e del mercato a cui si fa riferimento.  Non si è influenti su tutto in eguale maniera e “a prescindere”, come se la reputazione si potesse costruire semplicemente attraverso un comportamento costante e pro-attivo sui social media (il famoso outreach) e una facilità a creare e sostenere relazioni, indipendentemente dai contenuti in cui queste relazioni si esercitano. Ma questo è  ciò che tendono a far passare gli algoritmi che semplificano il concetto di reputazione digitale, come Klout e Kred. La chiave della reputazione è invece proprio il contenuto sul quale si sceglie di esercitare un giudizio e quindi un’influenza (posto che sull’argomento poi si scriva tanto, si abbiano tante relazioni ecc)

Reputation Manager ha analizzato poco tempo fa il fenomeno dei food-blogger, che da appassionati di cucina a tempo perso (ossia, a livello amatoriale) sono in alcuni casi diventati influenti tanto quanto, e forse più, di chef blasonati ma meno attivi online.  Sono l’espressione di un fare specifico, non di un’autorevolezza generica su un tema: e  i numeri sono enormi! Fortuna, furbizia, “capacità di crearsi a tavolino un profilo da influencer“, come si dice nel pezzo del Club della Lettura del Corriere? No di certo: tanta passione e preparazione per la cucina da un lato, e tanta proattività nel saper utilizzare il web e i social media per farle conoscere agli altri interessati al mondo della gastronomia, dall’altro.

In effetti anche nel nostro lavoro quotidiano, in Isobar, verifichiamo spesso la tendenza (ancora di molte aziende) a considerare il numero dei propri “social-seguaci” come il benchmark per determinare il successo o l’insuccesso della loro attività nei social network, quando di fatto il valore reale e’ dato dalla relazione e dall’interazione effettiva tra i Brand ed i consumatori. Se poi consideriamo che esistono anche soggetti che propongono e promettono alle aziende, attraverso l’utilizzo di pratiche fraudolente per incrementare artificiosamente il numero i fan e i follower ovvero il loro bacino d’utenza “social”, di aumentare la reputazione digitale, allora forse non solo non si è capito il valore effettivo della relazione e delle conversazioni online ma non si è nemmeno compresa la portata di questa rivoluzione dei social network nei quali i veri protagonisti sono proprio i consumatori che, con le possibilità offerte loro dalle tecnologie, oggi possono determinare il successo o l’insuccesso di un prodotto o di un servizio anche semplicemente attraverso un commento che si può condividere velocissimamente e che altrettanto velocemente può riverberare in rete.

Insomma  se si continua a ragionare in termini meramente quantitativi e di copertura e non ci si sofferma sull’identificazione del valore aggiunto, che è costituito principalmente dalla costruzione di un rapporto con la community, dall’identificazione di un pubblico che sia realmente interessato al contenuto si commette un gravissimo errore. Cosa può guadagnare un’azienda dall’avere un bel numero di fan, se poi non sa chi sono, cosa dicono dei loro prodotti e dunque se non sa se la seguono e la apprezzano davvero? Utilizzare i social media in questo modo preclude tantissime possibilità. Stimolare il proprio pubblico attraverso contenuti utili o anche ludici, ma comunque presumibilmente di loro interesse, consente invece di acquisire informazioni preziosissime ed importanti per impostare meglio le strategie di comunicazione, promozione, customer care e -perché no? – anche di vendita.

Influenza è dunque qualcosa di molto più specifico e settoriale della semplice visibilità o del “chi urla di più”. Certo, non si può negare che anche la pura visibilità possa servire a qualcosa: “purchè ne parlino” diceva Oscar Wilde (“There is only one thing in the world worse than being talked about, and that is not being talked about“, The Picture of Dorian Gray) e in Italia è forse più vero che in altri Paesi. Ma questo Klout non lo sa.

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