La strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980 non è patrimonio solo della città. Lo dimostra la gerbera bianca che i feriti e i parenti delle vittime appuntano sugli abiti. Lo stesso fiore che ha Salvatore Borsellino, per la prima volta alla commemorazione dell’attentato che 32 anni fa fece 85 morti e 200 feriti. “Sono qui per una ragione precisa”, dice stringendo un’agenda rossa, come quella che venne fatta sparire dopo l’omicidio del fratello Paolo, due decenni fa esatti, morto in via D’Amelio insieme agli uomini della scorta. “La ragione è che c’è un unico disegno stragista che sta dietro alle bombe esplose dal 1969 al 1993 in Italia. Questo sistema di potere cerca di aggredire la ricerca della verità su ciò che è accaduto in questo Paese. Lo si vede da quello che succede alla procura di Palermo. Occorre dunque unirsi per continuare nella nostra lotta”.

Nel corteo che poco dopo le 9 del mattino parte da piazza del Nettuno, sotto il Comune di Bologna, per sfilare fino a piazza delle Medaglie d’Oro, davanti all’ala della stazione saltata per aria, lo stesso fiore bianco lo indossa anche Manlio Milani, presidente dei familiari delle vittime della strage di piazza della Loggia, avvenuta a Brescia il 28 maggio 1974. Con la “sua” Casa della Memoria, da anni, sta digitalizzando milioni di pagine di atti giudiziari sul periodo delle stragi, documenti in formato elettronico che partono da Piazza Fontana e dai processi di Catanzaro e Bari per arrivare fino ai procedimenti più recenti, come il Brescia ter. “Essere qui”, afferma Milani, “significa ricordare le stragi, ma soprattutto per le vittime, i loro nomi, le loro passioni. Occorre continuare a cercare tutte le verità su quel periodo storico per loro, per chi ha subito il terrorismo”.

E poi ci sono molte delle oltre 300 persone che fanno parte dell’associazione vittime della strage alla stazione. Paolo Sacrati aveva 13 anni quando scoppiò l’ordigno. “Dovevo partire per le vacanze”, racconta, “e con me quel giorno c’erano mia madre e mia nonna, che morirono. Mio padre si era fermato a parcheggiare. Quando è esploso tutto, mi sono ritrovato coperto dalle macerie e sono rimasto lì un’ora e mezza. Non dimentichi mai un evento del genere, in qualche modo cerchi di andare avanti”. Sono in sostanza anche i ricordi di Sonia Zanotti, che il giorno dello scoppio di anni ne aveva 11. “Tornavo dalle vacanze e in un attimo tutto è saltato per aria. Oggi sono qui perché, dopo vent’anni, ho avuto la forza di impegnarmi nell’associazione vittime. L’ho fatto per me, ma anche per chi non c’è ancora riuscito per chi è ancora a casa a piangere in solitudine”.

Patrizia Poli aveva invece 23 anni ed era già madre di una bambina. “Quel giorno per fortuna mia figlia non era con me”, dice. “C’era mio marito e rimanemmo feriti in modo non mortale per un caso: appena prima dello scoppio ci spostammo dal primo al terzo binario. Ciò che abbiamo visto non si immagina, era un incubo con cui ho convissuto in tutti gli anni a seguire”. Caso del destino, quel giorno alla stazione c’era un suo compagno di scuola, Paolo Zecchi, con la moglie., Viviana Bugamelli. Entrambi avevano poco più di vent’anni ed erano andati a fare il biglietto per partire per le vacanze. “Non sapevo che fossero lì”, aggiunge Patrizia Poli. “Ho saputo dopo che lui e la moglie sono morti sul colpo”.

E poi, in corteo, c’è Marina Gamberini. Oltre alle ferite fisiche, che richiederanno anni per essere curate, per lei ci sono state profonde ferite anche psicologiche. Il suo volto ha fatto il giro del mondo. Poco più che ventenne, venne immortalata sulla barella, sconvolta da quanto stava vivendo, un urlo silenzio mentre la portavano fuori dalla stazione crollata. Lavorava alla Cigar, il bar ristorante, e non ha mai dimenticato le colleghe che quel giorno presero servizio con lei e che dalla tavola calda non uscirono più. “Dopo lo scoppio”, ricorda ancora mossa dalla commozione, “il tempo passava e io restavo lì, sotto le macerie. A un certo punto avevo raggiunto la consapevolezza che avrei potuto non sopravvivere”.

I feriti che sfilano sono tanti. Tra loro c’è Tonino Braccia, che al tempo aveva 19 anni e faceva il militare, ed Anna Pizzirani, che alla stazione aveva la figlia undicenne. Sopravvisse la bambina e lei venne informata di quello che era successo dal marito, mentre era al lavoro. Per tutti loro, c’è “l’abitudine agli attacchi all’associazione vittime, ma non ce ne curiamo, continuiamo il nostro lavoro per la memoria e la verità”. Concetti, questi, che per ciascuno passano dalla ricerca dei mandanti, come scritto nella memoria presentata alla procura di Bologna la primavera scorsa, 604 pagine di ricostruzioni in base ad atti giudiziari recenti che “vogliono indicare una possibile strada da percorrere” per raggiungere le verità mancanti al quadro che ha individuato esecutori materiali e depistatori.

Una strada che passa da lì anche per chi quel giorno lavorò alla stazione. “Ma quale caldaia?”, afferma Gabriele Evangelisti, uno dei vigili del fuoco che lavorò per soccorrere i feriti quel giorno. “Al centro di coordinamento ci dissero subito, alle 11 del mattino, che era una bomba. Così, quando siamo arrivati, abbiamo iniziato a scavare con le mani perché con i mezzi avremmo rischiato di fare altro male a chi già era stato ferito. E lavorammo in silenzio per avvertire il lamento di qualcuno, per individuare i sopravvissuti. Dal nostro lavoro eravamo abituati a tutto, da incidenti stradali agli scoppi per il gas di casa. Ma la rabbia di quel giorno, per quella bomba, è un ricordo che non si può cancellare”.

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