Lo scandalo “Libor-Barclays” va oramai ben al di là di Barclays – l’unica per ora a essersi presa una legnata pur essendo stata quella che ha cooperato di più – coinvolgendo grandi banche internazionali. In soldoni: il “Libor” è un tasso su prestiti a brevissima scadenza calcolato quotidianamente dalla British Bankers Association – perché loro? Per tradizione il settore bancario è conservatore e ossessionato da riti antichi. Usando “dati e informazioni” (e qui sta il problema) forniti dalle maggiori banche della Piazza di Londra (sulla quale operano tutte le banche del mondo che contino). Le informazioni che vengono raccolte sono relative ai tassi che la banca ha pagato, o stimato di dover pagare, quel giorno per prendere a prestito fondi con scadenza massima a un anno. Da queste informazioni la BBA calcola una “media” che diventa il Libor del giorno e serve da punto di riferimento con valore legale per milioni di contratti finanziari. Quanto valgono i contratti che dipendono dal Libor non si sa di preciso, ma una è 250-300 volte il Pil italiano. Le banche coinvolte nell’inchiesta sono accusate di aver mentito, in modo più o meno coordinato, dal 2005 sino a quando sono state pizzicate, nel 2011. Barclays si è già vista affibbiare una multa (350 milioni di euro) dai regolatori americani e inglesi. Ma il totale delle multe possibili per il complesso delle banche coinvolte nello scandalo è stimato sui 20 miliardi di euro.

Da quanto è dato sapere, nella fase più acuta della crisi del 2007-2009 le grandi banche hanno teso a manipolare il Libor al ribasso, volendo dare l’impressione di essere in condizioni finanziarie migliori e con maggior accesso alla liquidità a breve di quanto in realtà fossero. In ogni caso, il fatto che un gran numero di banche cooperi per alterare sistematicamente un indicatore di prezzo di tale rilevanza e riesca a farlo in barba al regolatore (o, peggio ancora, con la sua cooperazione passiva) non può non provocare accese reazioni. Da un lato può essere preso come l’ennesima prova della natura criminale del sistema finanziario e della necessità di punirlo, statalizzarlo, distruggerlo. Ma l’esperienza dimostra che un modo senza sistema bancario, o con banche di Stato, è un mondo più povero e arretrato, un mondo senza sviluppo. L’alternativa è considerare lo scandalo Libor come l’ennesimo segnale di un problema maledettamente serio.

Il Libor è un tasso determinato in maniera discrezionale sulla base di informazioni private che le banche fanno avere al loro sindacato, la BBA. Detto altrimenti: il prezzo non viene determinato in un mercato organizzato, trasparente e concorrenziale, ma nel chiuso di uffici londinesi da parte di un gruppo di signori che agiscono con completa discrezionalità. Tradizionalmente il sistema delle banche si è retto su meccanismi in cui la confidenza fra banchieri andava di pari passo con la discrezionalità delle scelte. Il sistema delle banche rifugge dal mercato organizzato dove operano migliaia di agenti indipendenti e preferisce gli affari fatti da pochi e in privato. Il mondo dei derivati over the counter su questo si fonda e questa opacità (che permette di manipolare l’informazione disponibile sulle condizioni effettive dei portafogli bancari) è stata il fattore più importante fra quanti hanno rischiato di distruggere il sistema finanziario mondiale quattro anni fa.

La lezione è semplice: occorre che il regolatore riduca i margini di discrezionalità e imponga, dove possibile, che i contratti che le banche stabiliscono fra loro si standardizzino e i prezzi siano frutto di contrattazioni pubbliche su mercati organizzati. Ma una delle funzioni più utili dell’attività bancaria consiste nel far “abiti su misura” adattando i prodotti e i contratti alle cangianti condizioni di mercato e alle circostanze in cui i clienti delle banche, imprese e consumatori, possono trovarsi.

Si può prevedere che si lavorerà per arrivare alla determinazione del Libor attraverso un qualche meccanismo d’asta pubblica, ma che questo richiederà tempo e non è detto che funzioni. Ormai il sistema bancario di quasi tutti i Paesi economicamente avanzati è un oligopolio ristretto in cui i “campioni nazionali” hanno catturato, più o meno esplicitamente, il regolatore stesso. Questa cattura è il prodotto dell’operare del mercato bancario (dove l’incentivo a risolvere situazioni di difficoltà mettendo insieme due o tre banche per farne una più grossa, con l’appoggio della banca centrale, è endemico) ma anche e soprattutto delle politiche statali. In ogni Paese si è operato per costruire “campioni nazionali”, ossia grandi banche controllate da capitale del paese e vicine al potere politico. L’evidenza che, oltre una certa soglia, esistano effettivi rendimenti di scala nell’industria bancaria è assente o negativa. Nondimeno, in tutti i Paesi si sono favorite politicamente banche sempre più grandi che hanno poi catturato i regolatori. 

La cattura del regolatore non è dovuta al fatto che, in alcuni paesi come l’Italia, alcune grandi banche sono formalmente “proprietarie” della Banca centrale: lo sanno anche i sassi che il governatore della Banca d’Italia, come quello della Bce, lo sceglie il potere politico. È dovuta invece al fatto che il successo dei “campioni nazionali” viene spacciato per quello del Paese o delle comunità in cui sono basati. Un loro fallimento metterebbe a repentaglio la stabilità del Paese stesso, come gli irlandesi e gli spagnoli hanno appreso. La soluzione, ovviamente, è forzare concorrenza e spezzatino bancario a livello per lo meno continentale. Ma occorre che quegli stessi politici che hanno voluto i campioni nazionali decidano di smontarli. Improbabile, a meno che altri scandali non forzino loro la mano.

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