L’altro ieri a Roma una donna è stata aggredita da due rottweiler ai quali stava portando il cibo. I due animali sono stati abbattuti dalle forze dell’ordine, il proprietario denunciato; per fortuna la signora, nonostante le gravi lesioni, non corre pericolo di vita.

Le associazioni animaliste e quelle dei veterinari si sono precipitate a spiegare che non esistono razze canine pericolose: il rischio è individuale ed il cane aggressivo è tale per colpa del padrone, che presumibilmente non ha saputo educarlo. Sarà. Io di cani non capisco nulla e non pretendo di correggere i veterinari. Però per mestiere mi intendo un po’ di statistica ed è un dato di fatto che le aggressioni canine sono dovute con grandissima frequenza ai cani di un piccolo numero di razze: non ricordo nessun caso di persone ridotte in fin di vita da un cocker o da un bassotto. Sarà forse perché, essendo piccoli non attaccano un animale grande come l’uomo; oppure sarà perché i padroni dei cocker sono più bravi ad addestrare i loro animali dei padroni dei rottweiler; guai a me se penso che il cocker è più tranquillo del rottweiler. Purtroppo la statistica può dare informazioni ma di rado svela le cause dei fenomeni. Fatto sta che in Gran Bretagna, con pragmatismo anglosassone, hanno vietato le razze canine più frequentemente responsabili di aggressioni all’uomo: non sarà magari colpa del cane o della razza, ma se aggredisce è meglio non tenerselo in casa o in giardino.

Non voglio parlare di argomenti che non conosco quindi non insisto sul dubbio se le aggressioni canine siano da imputare al cane o al suo padrone. Voglio fare invece una cosiderazione culturale in senso lato: perché ha successo l’argomentazione secondo la quale il padrone è responsabile dell’aggressività del suo cane. Questa argomentazione, secondo me entra nella nostra cultura con la psicoanalisi post-Freudiana, ed è riferita in origine alla malattia mentale del bambino e dell’adulto: la causa della psicopatologia non sta nella costituzione dell’individuo ma nell’educazione che ha ricevuto, non nature ma nurture. Come tutte le posizioni preconcette anche questa non ha basi statistiche solide e nessuno psicoanalista è mai stato in grado di dire quale comportamento del genitore è correlato alla psicopatologia futura del figlio. Allo stesso modo nessun veterinario è mai stato in grado di dire quale comportamento del padrone è correlato all’aggressività del suo cane (nell’episodio romano dell’altro ieri i padroni erano assenti, in vacanza, e la signora responsabile di nutrire i cani aveva fatto le stesse cose di ogni altro giorno simile). Poiché le evidenze statistiche (apparentemente) contrarie all’argomentazione “la colpa è del padre (o del padrone)” sono numerose il successo di questa argomentazione non viene dalla sua plausibilità: deve avere un’altra ragione.

Faccio un’ipotesi: l’argomentazione “la colpa è del padre (o del padrone)” piace perché deresponsabilizza e liberalizza. Mi spiego: ammettere che eventi spiacevoli come la malattia mentale dell’uomo o l’aggressività del nostro animale domestico hanno una base probabilistica, che tutti siamo a rischio, e che il rischio è maggiore o minore in funzione della presenza di fattori ereditari, indipendenti dalla nostra volontà significa rinunciare alla nostra illusione di controllare il mondo nel quale viviamo. Significa anche mettere in atto, ove possibile, comportamenti precauzionali di riduzione del rischio che sono sempre rinunce (rinunciare ad esempio al rottweiler in favore del cocker). Negare che gli eventi spiacevoli abbiano una base probabilistica e renderli deterministici ci libera: “non è il rottweiler che è pericoloso, è il signor Nome e Cognome che non ha saputo allevarlo, ed ora scusatemi, devo andare a dar da mangiare a quel tesoro del mio squalo bianco ammaestrato”. 

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