“I magistrati arrivano sempre dopo, direi per definizione. Le inchieste non sono la causa ma l’effetto”. Alessandro Penati, docente di Finanza aziendale all’Università Cattolica di Milano, editorialista di la Repubblica, va dritto al punto: “Non bisogna guardare solo ai casi che riguardano direttamente i vertici di grandi banche. Qualsiasi scandalo economico, a partire dal caso Parmalat, insegna che non c’è frode possibile senza l’aiuto della banca”.

Dov’è il focolaio originario della malattia?
Nell’oligopolio. I flussi di finanziamento sono intermediati da poche banche, che tra l’altro, con fusioni e acquisizioni, diventano sempre meno. In più gli azionisti non sono interessati alla buona gestione.

Che cosa significa?
Le banche popolari non hanno padrone ma non sono scalabili. Le altre hanno azionisti anomali, come le fondazioni, o soci privati interessati a trattamenti di riguardo dalla loro banca. E qui si innesta il secondo focolaio della malattia, il capitalismo di relazione, che prospera anche grazie al rapporto opaco tra pubblico e privato. Finché le banche non risponderanno ad azionisti interessati alla buona gestione, sarà difficile avere comportamenti trasparenti.

Meglio avere buone amicizie anziché buone aziende per avere un prestito?
Molto meglio. Il sistema italiano ha reagito all’introduzione dell’euro chiudendosi, difendendosi dall’ingresso di capitali stranieri. Tenere le banche in mano ai soliti noti faceva comodo a tutti.

Tutti chi?
Politici, enti locali, imprese, gli stessi sindacati. Accomunati da un interesse: vogliono banche con cui entrare in contatto alzando il telefono e parlando con un amico. Questa è la ragione per cui nel 1999 sostenni la scalata di Roberto Colaninno alla Telecom.

Che cosa c’entra?
Era la prima grande operazione finanziaria fatta in Italia con prestiti stranieri. Apriva il mercato. Invece poi, con l’euro, il sistema ha alzato le sue difese, con storie come la mitica difesa dell’italianità. Il risultato è che siamo il Paese con minori investimenti diretti esteri.

Ma questo non dipende dal fatto che l’Italia è poco amica dell’impresa, come dicono in molti?
Per me sono gli imprenditori e i banchieri poco amici della concorrenza che viene da fuori.

Si parla di frode fiscale, corruzione, riciclaggio. Perché nelle banche italiane si delinque così intensamente? Sono i vertici a condurre gli istituti sulla strada del reato o sono solo mele marce?
I vertici sanno sempre più di quanto ammettono. E se non sanno, hanno organizzato male le strutture di controllo. Le banche sono indotte dalla crisi a comportamenti spregiudicati. Devono coprire i buchi, e questo spiega i fenomeni di frode fiscale da centinaia di milioni di euro. Quando guadagnavano bene potevano mascherare i risultati disastrosi delle operazioni fatte per favorire gli amici. In più la crisi aggrava il dissesto dell’impresa che ha avuto prestiti troppo generosi, o imprudenti. Il risultato finale è esplosivo. L’Italia è uno dei Paesi più pronti ad avere dissesti bancari e altri scandali giudiziari.

Vuol dire che le banche sono messe peggio di quanto non si dica?
Non lo dico io, ma la Borsa: secondo lei per quale ragione le azioni delle banche italiane valgono molto meno del loro patrimonio scritto nei bilanci? Il mercato sconta che nei conti delle banche ci siano molti più crediti in sofferenza, cioè di difficile recupero, di quanto non dichiarino. È una bomba a orologeria pronta a esplodere da qui al prossimo anno.

Falsificano i bilanci?
Non necessariamente. Ci sono molti modi di mascherare le difficoltà, basta leggere i giornali, magari tra le righe. Guardi i guai in cui si è infilata Mediobanca finanziando Ligresti, e le acrobazie che sta facendo per non svalutare quel grosso credito. O la vicenda di Intesa Sanpaolo con il finanziere Zaleski. In grande o in piccolo i banchieri stanno facendo tutti la stessa cosa: chiamano l’impresa debitrice e per non ammettere che il credito è irrecuperabile lo rinegoziano.

Bello, come si fa?
Facciamo che io sono la banca e lei mi deve rimborsare mille euro entro il 31 luglio. Ci mettiamo intorno a un tavolo e rinegoziamo le condizioni del prestito. Io le concedo cinque anni per la restituzione dei mille euro, con queste rate: dieci euro il primo anno, altri dieci il secondo, il terzo e il quarto anno, e 960 euro il quinto anno. Così per cinque anni potrò negare di aver perso i mille euro.

Immagino che mille euro sia per modo di dire.
Assolutamente: non vada in banca a chiedere di rinegoziare un debito se non è di svariati milioni di euro.

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