Il grano della legalità non piace alla camorra. E allora bisogna bruciarlo, ridurlo in cenere. È successo la notte scorsa a Pignataro Maggiore, Caserta, il paese che tutti chiamano la Svizzera della camorra. Perché qui comandano clan potenti come quello dei Lubrano, radicati sul territorio e alleati dei “Casalesi”, ma negli anni passati con l’occhio attento anche al potere mafioso, quello dei Corleonesi, che dettava legge in Sicilia. E ai Lubrano appartenevano quei 12 ettari coltivati a grano. Era “robba loro” confiscata dallo Stato ed affidata temporaneamente alle cooperative “Le terre di don Diana”. Quel grano sarebbe servito a produrre la farina per “i paccheri di don Peppe Diana”, il sacerdote ucciso a Casal di Principe nel 1994. Pasta buona, ma indigesta per la camorra. Dodici ettari di grano ridotto in cenere, è bastato qualche guaglione e una tanica di benzina. Così facevano i guappi nel secolo passato, quando la camorra campava vessando i contadini. A chi non si piegava venivano tagliate le piante, uccisi gli animali nelle stalle, incendiati i campi di frumento. E a Libera, il network di associazioni antimafia che ha fatto dell’uso sociale dei beni confiscati alle mafie la sua bandiera, ne stanno succedendo di tutti i colori.

L’aggressione contro le nostre cooperative, dice don Luigi Ciotti, “è continua, una rappresaglia reiterata, ma noi andiamo avanti con più forza e determinazione, quelle terre ora sono libere”. “Nei giorni scorsi – prosegue don Ciotti – il tentativo di incendio su 4 ettari di aranci a Lentini in Sicilia, ora l’incendio di Pignataro Maggiore. Vogliono colpire chi lavora per ristabilire legalità e realizzare economia giusta e pulita nel nostro paese. Non possiamo più pensare a delle coincidenze. Esprimiamo gratitudine verso il Corpo Forestale, il ministro dell’Interno, le forze dell’ordine per il loro contributo per garantire la sicurezza di quelle realtà. Non ci fermeranno, andiamo avanti con più forza e determinazione”.

A Pignataro il 70% della produzione è andata distrutta, il grano che si è salvato sarà mietuto questa mattina. “E anche questo sarà uno schiaffo alla camorra”, dicono a Libera. Il “pacchero”, nel dialetto campano, non è solo il particolare formato della pasta, ma è anche la traduzione dell’italianissimo schiaffo. E di schiaffi alla camorra in tutta l’area dominata dal clan dei “casalesi” ne sono stati dati tanti dalle cooperative sociali. Qui negli allevamenti strappati dalle mani dei clan si produce mozzarella di bufala, sui terreni olio, grano, frutta, nelle ville pacchiane che i boss si costruivano sul lungomare ora ci sono laboratori.

E “Il bene liberato” è il tema della quinta edizione del Festival dell’impegno civile, una manifestazione itinerante che da giugno a luglio sta toccando le città e i paesi della Campania. “I beni confiscati – dice Valerio Taglione, del comitato don Peppe Diana e di Libera Caserta – sono simboli concreti di riscatto sociale e civile dalla violenza mafiosa, ma anche opportunità reale di uno sviluppo sostenibile e inclusivo. Riappropriarsi dei beni confiscati, farne un patrimonio comune, renderli luoghi aperti e accessibili a tutti, contribuisce in modo determinante a liberare il bene e a costruire una società che non è costretta alla paura e al silenzio”.

Ed è proprio questo che la camorra non vuole.

Il Fatto Quotidiano, 3 Luglio 2012

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