Una cultura diffusa dei diritti umani appare in Italia un traguardo lontano. Così come lo è l’elaborazione di una politica “sistematica, coerente e trasparente” per la loro promozione e protezione. In sintesi l’Italia è in ritardo e inadempiente. Questa la situazione secondo il secondo rapporto sullo stato di attuazione delle Raccomandazioni Onu per i diritti umani rivolte a Roma attraverso lo strumento della Revisione periodica universale (UPR) messo a punto dal comitato composto da 86 organizzazioni non governative e associazioni.

Sono trascorsi due anni da quando – il 9 giugno 2010 – il Consiglio per i Diritti Umani espresse le 92 raccomandazioni e un anno dal primo rapporto del comitato. “Con questo documento le ong e associazioni del Comitato italiano intendono tenere alta l’attenzione e il dibattito su questi temi” ha detto Carla Carazzone, portavoce del comitato, “A oggi il governo italiano non ha ancora tradotto il testo e siamo in attesa di un mid-term report, così come auspicato dal Consiglio. Chiediamo quindi al governo di preparare, seguendo l’esempio di altri paesi dell’Unione europea, un rapporto di follow up a medio termine, da inviare all’ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani”. Ancora oggi, lamenta il documento, manca in Italia un organismo indipendente per i diritti umani. Unico caso tra i Paesi dell’Unione europea a non avere un simile meccanismo garante in linea con le risoluzioni Onu del 1993, del Consiglio d’Europa del 1997 e con i cosiddetti principi di Parigi. Il ritardo italiano non ha giustificazione, si legge nel rapporto. Tanto più che già nel 2007, il governo nel presentare la sua prima candidatura al Consiglio Onu per i diritti umani per i successivi tre anni si era formalmente impegnato di fronte all’Assemblea Generale dell’Onu “a creare una Commissione nazionale indipendente per la promozione e protezione dei diritti.

Impegno disatteso e promessa reiterata nuovamente nel 2011 con la presentazione di una seconda candidatura e dopo essere stata membro del Consiglio tra il 2007 e il 2010, dove siederà ancora fino al 2014. Altra grave carenza è la mancanza del reato di tortura nel codice penale. Addirittura il rapporto denuncia l’assenza di una “precisa intenzione” di introdurlo nell’ordinamento penale. Tutto ciò, come ha ricordato anche Amnesty International appena due giorni fa, sebbene per il governo non si tratti di un’opzione, ma di un obbligo assunto dall’Italia con la ratifica della Convenzione Onu contro la tortura nel gennaio del 1989. Un caso per tutti basta a spiegare cosa ciò possa significare. Il 30 gennaio scorso il tribunale di Asti ha prosciolto per prescrizione cinque agenti della polizia penitenziaria accusati delle violenze e abusi subiti da due detenuti nel casa circondariale di Asti tra il 2004 e il 2005. Nelle motivazioni del giudice, in cui risultano documentati i maltrattamenti, è chiaramente segnalata l’esistenza di una lacuna normativa relativa all’ipotesi di tortura, smentendo quando sostenuto nel 2010 dal governo, che dichiarò sufficienti a coprire la tortura le fattispecie di reato previste dall’ordinamento italiano. Tra le priorità sottolineate del rapporto, ricorda Carazzone, ci sono inoltre la protezione dei diritti fondamentali dei migranti, dei richiedenti asilo, dei rifugiati, delle donne vittime di violenza e dei detenuti e il diritto all’informazione libera e indipendenti.

di Andrea Pira

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