Sulle stragi di mafia dei primi anni ’90 è doveroso fare “piena verità senza guardare in faccia a nessuno”, ma nell’iter delle indagini sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia “non appare configurabile alcuna violazioni di legge” e quindi il ministero della Giustizia non interverrà. E’ netta la posizione esposta al question time dal Guardasigilli Paola Severino, che chiede di evitare ogni “strumentalizzazione”. Netta quanto l’interrogazione del leader dell’Idv, Antonio Di Pietro, che ha firmato il testo e in Aula ha incalzato il ministro, tornando a chiedere con forza un intervento ispettivo.

La materia è ormai incandescente. Proprio l’Italia dei Valori, in questi giorni, si è fatta portavoce di una serie di iniziative, tra cui la richiesta di una commissione d’inchiesta. Il caso è quanto mai delicato, perché lambisce il Quirinale, con le telefonate intercorse tra l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino e il consigliere giuridico del Colle, Loris D’Ambrosio. Conversazioni che sono state intercettate, perché Mancino è indagato per falsa testimonianza dai pm di Palermo che hanno in mano il caso.

Su questo punto la Presidenza della Repubblica ha già risposto nei giorni scorsi parlando di “irresponsabili illazioni”. Le ricostruzioni giornalistiche, però, si susseguono. L’ultima arriva da Panorama, che nell’anticipazione di un articolo in uscita nel prossimo numero, sostiene che “un sospetto forte irrita il Quirinale”: “L’ipotesi che siano state ascoltate anche le telefonate del presidente Giorgio Napolitano mentre parlava con persone intercettate”. Il Pd non ci sta e per bocca del segretario Pier Luigi Bersani bolla come “operazione inaccettabile” le “insinuazioni nei confronti del Capo dello Stato, basate su distorsioni dei fatti. Respingeremo con fermezza – aggiunge – ogni speculazione nei confronti del Presidente della Repubblica”.

Ma proprio sul nodo delle telefonate è tornato insistentemente Di Pietro alla Camera, citando anche le conversazioni di Mancino col procuratore generale della Cassazione Gianfranco Ciani. E con l’ex pg della Cassazione, Vitaliano Esposito: “Mancino lo chiamava ‘guagliò”, ha rimarcato. Di Pietro legge un testo differente da quello depositato. “Rilevo che l’oggetto dell’interrogazione era formulato in maniera originariamente diversa”, esordisce infatti il ministro Severino, che non tocca il tema delle telefonate, ma si concentra sull’aspetto tecnico che avrebbe potuto motivare o meno un intervento del ministero: le procedure applicate dal Procuratore della Repubblica di Palermo, Francesco Messineo. Quest’ultimo, secondo ricostruzioni di stampa, non avrebbe voluto assentire agli atti dei sostituti inquirenti.

Di Pietro si chiedeva, nei giorni scorsi, se questo rifiuto non fosse da mettere in relazione “con persuasivi interventi esterni”. Cioè, con forme di pressione. Ma al question time, Severino ha passato in rassegna la normativa vigente, che “non prevede che gli atti relativi all’avviso di conclusione indagini siano sottoposti ad alcun visto di approvazione da parte del procuratore capo” quando questi non sia sia co-assegnatario del procedimento. Né il programma organizzativo della Procura di Palermo “prevede l’apposizione del visto”. Insomma, norme e regolamenti non sono stati violati. Quindi “non sono attivabili iniziative di carattere ispettivo o di natura ministeriale“.

Altra cosa è la necessità di far luce, a 20 anni di distanza, sulle stragi di mafia “culminate con la morte di Falcone e Borsellino“. Su quest’esigenza il Guardasigilli si dice pienamente d’accordo con Di Pietro nell’intento di “pervenire a una piena e integrale verità”. Ma “a tale, incommensurabile debito – avverte – si può assolvere solo nel rispetto delle leggi sostanziali e processuali”, “fuori da ogni strumentalizzazione che distorcerebbe soltanto quella ricerca della verità cui tutti aspiriamo”.

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