fidel castroLa brevità non è mai stata, notoriamente, la più spiccata tra le molte virtù di Fidel Castro. Eppure proprio questa – una sorta d’estrema e, quasi sempre, enigmatica ricerca della sintesi – sembra da qualche giorno esser diventata la principale e costante caratteristica delle “riflessioni” che, dal 2006, anno della sua forzata giubilazione per ragioni di salute, l’ex comandante en jefe pubblica su Cubadebate. Poche e, spesso, misteriose parole, fulminee allusioni, taglienti giudizi che in nulla rammentano – non solo nello stile, ma anche nella sostanza – i maratonici discorsi ai quali, nell’immaginario collettivo, la sua celeberrima figura viene da sempre associata.

Perché questo cambio di pelle? Prevedibilmente, molti osservatori hanno attribuito una tanto repentina e radicale metamorfosi a una ferma volontà d’adeguamento alle più recenti tecniche d’informazione. O, più esattamente, a una sorprendente ma molto determinata conversione dell’autore alla logica del “tutto in 140 caratteri” tipica dei tempi di Twitter. Vero, probabilmente. Ma molto più interessante è, in effetti, cercare di comprendere – se qualcosa da comprendere davvero esiste – che cosa il “líder máximo” intenda comunicare attraverso questa trasfigurazione stilistica. Ovvero: quali – oltre la forma – siano i contenuti, i messaggi che Fidel va oggi lanciando con molto più stringata, ma inalterata passione.

L’impresa non è facile e Fidel – le cui ultime riflessioni per molti versi assomigliano, molto più che ai classici “tweet”, agli oracoli (in questo caso davvero storicamente classici) della Sibilla Cumana – sembra far di tutto per renderla ancor più complicata. Al punto da annunciare con una vera e propria sciarada – quella, per l’appunto, contenuta nella prima di queste sue nuove riflessioni, pubblicata il 10 giugno – la sua adesione al “twitter-pensiero”. “Che cosa sono gli FC?”, si chiede Fidel. E così risponde: “Questi costituiscono un metodo attraverso il quale cerco di trasmettere le modeste conoscenze che ho acquisito durante molti anni e che considero utili per funzionari cubani che abbiano responsabilità nella produzione di alimenti essenziali per la vita del nostro popolo…”. Conoscenze, aggiunge, che “con piacere condivido con Talía González (una giornalista televisiva n.d.r), vecchia amica dei tempi di Elián González (il bambino che, nell’anno 2000, venne a lungo conteso tra Miami e l’Avana n.d.r.)”. Tutto qui. Fidel non risponde dunque, se non in termini generici, alla domanda che lui stesso ha posto. E con questo ci fa sapere che, in realtà, desidera che quella domanda resti tale. Ovvero: che vuole che il mondo continui a chiedersi cosa in effetti siano gli FC. Perché?

Dopo questa prima mini-riflessione, Fidel ne ha – in rapidissima successione – pubblicate altre quattro. Due sono di natura sportiva (ungloria eterna” per Teófilo Stevenson, il grande pugile cubano recentissimamente scomparso, ed un appoggio alla nomina di Juan Juantoreña, straordinario mezzofondista degli anni ‘70, alla  presidenza del Comitato Olimpico); e non mostrano alcun enigmatico risvolto. Gli altri due sono invece, anch’essi, rebus storico-politici che attendono soluzioni. Il primo è una testimonianza di “profonda solidarietà” per Erich Honecker, ultimo presidente della dissolta Repubblica Democratica Tedesca, al quale, afferma Castro, toccò pagare “il debito contratto da colui che vendette la sua anima al diavolo per poche dita di vodka”.

Non è la prima volta che – in molto semplicistici termini di complotti e tradimenti – Fidel riflette sulla disintegrazione di quel blocco socialista di cui Cuba fu parte. Ed anche in questa molto succinta veste la sua analisi-lampo galleggia mediocremente in superfice, attribuendo un evento epocale come la caduta del muro di Berlino alla personale perfidia e a non ben precisate passioni etiliche (Gorbachov? Eltsin?) degli ultimi dirigenti dell’ex URSS. Ma perché proprio ora questo molto succinto ma assai sperticato pubblico elogio di Honecker? Di nuovo: mistero.

Ed ancor più misteriosa appare l’ultima “riflessione-tweet” (quella del 14 giugno), nella quale Fidel parla del leader cinese Deng Xiaoping, rivelando, in appena 35 parole, un episodio del quale non v’è traccia né negli annali, né nelle cronache. “Sembrava un uomo saggio e indubbiamente lo era – scrive Fidel – però commise un piccolo errore. ‘Bisogna punire Cuba’, disse un giorno. Il nostro Paese non ha mai nemmeno pronunciato il suo nome. Fu un’offesa assolutamente gratuita”.

Quando, regnante Jiang Zamin, Deng Xiao Ping ancora era, a tutti gli effetti, il potere nell’ombra, la Cina fu forse il più valido partner commerciale della Cuba orfana della dissolta Unione Sovietica. E fu in quegli anni di “periodo speciale” che – tanto per dirne una – le biciclette made in China cambiarono radicalmente il paesaggio dell’Avana. Dunque: perché– sulla base di “offese” di cui mai prima s’era parlato – Fidel attacca oggi Deng Xiao Ping, grande liberalizzatore dell’economia cinese? Per attaccare le riforme (o gli “aggiornamenti”, come ufficialmente si chiamano) del fratello Raúl?

Come si leggeva nei vecchi fumetti: sarà ciò che saprete alla prossima puntata. O al prossimo “tweet”….

(Foto: LaPresse)

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