Sabato scorso avrei voluto avere il dono di essere in due posti contemporaneamente. Al Bologna Pride, il Gay Pride nazionale organizzato questa volta in modo sobrio dopo il sisma che ha colpito la regione, e nello stesso momento a Trani, nel castello svevo, con le sue mura bianche e le lunghe stanze, che ospitava la conferenza, organizzata dalla Fondazione Rodolfo De Benedetti, dal titolo Unexplored Dimensions of Discrimination.

In effetti, mi trovavo a Trani, in una di quelle occasioni nelle quali non vorresti mai trovarti: dover scegliere tra gli amici del Pride e di Avvocatura per i diritti LGBTI / Rete Lenford e il lavoro. Ha prevalso quest’ultimo, ma ne è valsa la pena.
La conferenza mirava a commentare, tra i tanti, i dati emersi da un’indagine statistica che ha rivelato, forse non troppo sorprendentemente, che i lavoratori gay soffrono del 30% di probabilità in meno di trovare un lavoro. Inoltre, dalla ricerca emerge il dato, anch’esso allarmante, per cui i lavoratori omosessuali laureati, con ottime conoscenze d’inglese e informativa, faticano l’8% in più degli altri a trovare un impiego. Si tratta di una pura e semplice discriminazione, che in Italia viene combattuta attraverso leggi del tutto inefficaci e insufficienti.
Come son stati ottenuti questi dati? Semplicemente, si son spediti oltre 2.000 curricula, alcuni dei quali contenevano il dato distintivo dello svolgimento, da parte della persona candidata, di uno stage presso associazioni come Arcigay e Arcilesbica. La percentuale di chiamate da parte di potenziali datori di lavoro era del 30% in meno, come detto, per i maschi gay, mentre per le lesbiche la ricerca mostra un trattamento non distante da quello delle donne eterosessuali.
Nel mio breve intervento, che ho condensato in pochi minuti con grande gioia delle traduttrici in inglese che hanno potuto solo a fatica seguire il discorso, ho messo in luce alcuni aspetti problematici delle leggi vigenti. Il lavoratore discriminato, infatti, non è in alcun modo incentivato a promuovere un’azione di discriminazione, complici una legge dai contenuti e contorni incerti, modificata per ben 3 volte in 10 anni, e un legislatore recalcitrante che a mala voglia – e male – dà attuazione alle norme europee.
Ma i dati sopra citati confermano un trend preoccupante: che la discriminazione esiste ed è verificabile empiricamente. Checché ne dica Vittorio Sgarbi, il quale ritiene che “nessuno discrimina i gay. Se vogliono prenderlo da quella parte, sono fatti loro“, essere omosessuali, al giorno d’oggi, non è indifferente. Lo dicono le statistiche.
Le statistiche dicono anche che è difficile farsi un’idea generale del reale livello di discriminazione perché in Italia le cause per discriminazione si contano sulle dita di una mano. La paura è quella di dichiararsi di fronte a un giudice, di citare in giudizio la società presso cui si ha lavorato, magari per lungo tempo. Del resto, chi fa causa sa che per evitare del tutto di essere discriminato, dovrà cambiare lavoro, subendo così quel 30% in meno delle chance di trovarne uno nuovo. Chi glielo fa fare? Meglio il silenzio, allora. Meglio subire. Non a caso, i gay rinunciano ad investire su se stessi e sul proprio futuro, abbandonandosi alla logica perversa – e dannosissima sul piano sociale – che le loro chance di successo saranno determinate non in base alle loro capacità personali e professionali, ma in modo arbitrario da una società oscurantista, rassegnata ed omofoba. Il silenzio, così imposto dalla società alle persone, alimenta il minority stress e impedisce di fatto il loro pieno sviluppo.

Un silenzio rotto dal messaggio che Ivan Zamudio, il padre del giovane Daniel, brutalmente torturato e ucciso in Cile da un branco di neonazisti omofobi che hanno visto nell’omosessualità una giustificazione per le loro azioni. Ivan ha parlato dal palco del Bologna Pride: “Voglio che i ragazzi stiano sempre attenti, e ai loro genitori dico di amare i figli per quello che sono e di lasciarli liberi. Fidatevi di loro e proteggeteli. Spero che la morte di Daniel non sia capitata invano, e che adesso sia possibile scongiurare altri casi del genere”.
Sabato 9 maggio 2012, il caldo di una Bologna sobria, solidale e concreta, e il freddo delle stanze del bianco castello svevo di Trani non son mai state così vicine nella lotta per i diritti civili di tutti.
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