Quando sentii la terra borbottare e poi esplodere in un boato capii subito che si trattava del terremoto. Chissà perchè. Eppure era la prima volta. Ricordo distintamente il rumore delle cose che cadevano e andavano in frantumi e la mano di mio padre che mi teneva forte mentre le pareti mi sbattevano addosso come impazzite. E Yuri, il mio cane che non si mosse da sotto a quel tavolino. Lui molto più saggio di tutti noi che scegliemmo le scale. Lui che diventò il nostro sismografo. E le notti in macchina, con il freddo di un novembre che da molto caldo diventò freddissimo. E la radio a raccontare un disastro. E il treno che diventò la nostra casa, i militari che distribuivano il latte. E Sandro Pertini. E il dolore.

Per questo, anche da molto lontano, mi sembra di vedere ognuno di quei volti, di conoscere ciascuna di quelle lacrime e di sentire esattamente lo stesso senso di disperazione.

E penso – ma forse sbaglio – che in quei momenti si vorrebbe udire solo silenzio o il suono di voci di dispersi ritrovati, di cuori strappati alle macerie che tornano a battere a pieno ritmo. Si vorrebbe sentire poco e ricostruire in fretta.

Forse mi sbaglio. Ma in Emilia oggi importa poco della parata, che la si faccia o no. Importa che si ricostruisca e in fretta. Che quella Patria che si è deciso di celebrare nel giorno in cui divenne Repubblica, non abbandoni i suoi figli.

Che si ricostruisca e bene. In Emilia. A L’Aquila. Ovunque ci sia stato un terremoto. O altra calamità naturale.

Il mio terremoto era nel 1980. Gli ultimi container sono andati via poco tempo fa.

Un paese può rinascere. Parate o non parate. Un paese serio rinasce. E’ questo che bisogna dire agli emiliani. Agli aquilani. Agli italiani

Ed è tutto ciò che si dovrebbe realmente fare.

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