È sempre difficile parlare di suicidi. In Italia o altrove. È ancora più difficile quando si tratta di 250.000 persone che si sono tolte la vita dal 1995 ad oggi. Un numero troppo grande per poterlo metabolizzare. Un quarto di milione di persone. Negli ultimi 16 anni ogni trenta minuti un agricoltore indiano si è tolto la vita. Ognuno con una sua storia, una sua vita, un suo dramma e quello dei suoi familiari. Uno ogni mezz’ora.

Un ricercatore cerca spiegazioni, fa analisi, controlla dati, fa ipotesi, verifica se sono false. Un giornalista invece, o un documentarista, vuole raccontare una storia. E a volte le regole della narrazione impongono che ci sia un buono e un cattivo, in modo da far identificare il lettore o lo spettatore nel buono e contro il cattivo. E se nella storia da una parte ci sono poveri contadini suicidi e dall’altra una ricca multinazionale hai vinto facile, a mani basse. Non c’è storia. La forza emotiva è enorme.

Come puoi sperare di intavolare una discussione razionale non emotiva? Da una parte qualche grafico, numeri, frazioni, un’analisi asettica, a tratti anche fastidiosa per come riduce dei drammi umani a semplici percentuali. Dall’altra immagini di donne con il sari blu al funerale del marito morto suicida bevendo del pesticida. Immagini di bambini senza sorriso e campi di cotone sullo sfondo. La storia di un debito non ripagato che ora ricade sulle spalle della famiglia. I bambini che ora lasciano la scuola per sostenere la famiglia lavorando. L’enormità del numero di suicidi non deve far dimenticare che dietro ad ognuno di questi c’è una tragedia individuale. È ovvio chi esca mediaticamente vincente. E non a caso negli ultimi dieci anni sono stati prodotti innumerevoli documentari su questa tragedia.

Ho guardato tutti quelli che sono riuscito a trovare. E li ho visti anche perché volevo capire se la coltivazione del cotone che io e voi in questo momento abbiamo indosso, cotone con buona probabilità OGM, stava causando una tragedia nel momento stesso in cui mi infilo i pantaloni o mi metto la maglietta.

Vi avviso subito che l’argomento è complesso, l’articolo è lungo, e in più mi rendo conto che l’argomento trattato può interessare pochissime persone. Anche per evitare una overdose di dati quindi sarà diviso in più post.

Un dato comune di tutti questi documentari, persistente anche nella narrazione di molte ONG e attivisti, è quello del fallimento massiccio del cotone OGM, che porta come risultato a dei suicidi di massa.

A volte questi documentari sono arricchiti di storie impressionanti, ma sempre senza alcun riscontro. Ad esempio ricorrente è la storia di pecore o altri animali trovati morti nei pressi dei campi di cotone Bt. Nessuno ha mai dimostrato un collegamento tra le due cose però. Ci sono molte cose che possono uccidere una pecora: dei pesticidi, o una malattia o altro, ma da quello che ne sappiamo il cotone Bt non è tra queste essendo la tossina che produce velenosa solo per alcuni insetti ma innocua per i mammiferi, tanto è vero che il batterio che la produce è un insetticida molto utilizzato addirittura in agricoltura biologica.

Un’altra storia ricorrente, falsa, è quella di cui abbiamo già parlato, dei  “semi sterili”, raccontata spesso da Vandana Shiva, o addirittura di semi che “rendono sterili” le altre varietà di cotone infettandone in qualche maniera i semi normali e “spazzandoli via” dalla faccia della terra. Una cosa da fantascienza. Vale la pena di ricordare che niente del genere è mai accaduto, e che a oggi non esistono in commercio ogm sterili e men che meno ogm che rendono sterili le altre colture. Questa retorica dell’apocalisse è abbastanza comune in questo tipo di narrazione.

Uno dei primi documentari, girato nel 2003 (nel 2002 il cotone Bt era stato appena approvato) in Warangal, un distretto dello stato dell’Andra Pradesh in India, è: “Why are Warangal Farmers angry with Bt Cotton?” Perché i contadini del Warangal sono arrabbiati con il cotone Bt? 

Sulla rete se ne trovano altri, come “il Cotone Bt in Andra Pradesh, una frode che dura da tre anni, del 2005.

Oppure “I want my father back”. E anche “Bt Cotton in Vidarbha”, prodotto da Gene Campaign, una ONG che si oppone agli OGM, [parte 1, 2, 3 e 4]. Se avete due orette libere vi consiglio di guardarli (scoprirete tra l’altro che la tragedia dei suicidi è precedente all’introduzione del cotone Bt)

Gli ultimi due documentari in ordine di tempo sono “Bitter Seeds”, presentato pochi mesi fa negli USA


e l’italiano “Behind the Label”, “Dietro l’etichetta”.

Quando guardiamo un video a quanto pare le nostre “difese critiche” si abbassano e siamo disposti a credere molto più facilmente a quello che vediamo senza porci troppe domande. Come si spiegherebbe altrimenti il successo di trasmissioni come Voyager?! Solo se siamo molto esperti in un certo campo ci rendiamo conto se qualche cosa non torna. Non devo certo ricordare ai lettori l’importanza della televisione e dei mezzi di comunicazione di massa per veicolare dei messaggi, anche politici.

Alla fine lo spettatore esce convinto che questo cotone sia una schifezza. Costa di più di quello non transgenico, produce di meno, non è vero che riduce l’uso di pesticidi, gli agricoltori ci perdono e si indebitano. Insomma, che lo piantano a fare? Infatti alla fine del documentario del 2003 i contadini dicono che del cotone Bt non ne vogliono più sapere.

Nella narrazione delle organizzazioni esplicitamente contrarie alle biotecnologie si usa questo presunto fallimento come argomento contro l’utilizzo di qualsiasi OGM, sempre causa di disastri, povertà, morte e distruzione.

In realtà sullo sfondo c’è ben altro che non la semplice opposizione verso l’inserzione di un gene. C’è una differente visione dell’agricoltura, una preoccupazione (a volte anche odio) per il potere delle multinazionali, una opposizione alla globalizzazione, alla apertura dei mercati, una differente sopportazione psicologica rispetto a rischi potenziali e alle nuove tecnologie, un rifiuto dei brevetti e in generale dei diritti di proprietà intellettuale e così via. Tutte posizioni personali accettabili e rispettabili. Ma opinioni.

Chiedersi invece se il cotone Bt sia stato davvero un disastro in India (come sostengono Vandana Shiva, molti oppositori e i vari documentari) o un miracolo (come sostengono le industrie sementiere e il governo Indiano) non è una semplice opinione. È una cosa in linea di principio perfettamente misurabile. Con dei numeri. In inglese si dice “You are entitled to your own opinion, but not to your own facts”. Che potremmo tradurre con “hai diritto di avere le tue opinioni personali, ma non alla tua versione dei fatti”. I fatti sono fatti. Uguali per tutti.

La situazione precedente
Nel 2001, appena prima l’introduzione del cotone Bt in India, la situazione era la seguente [1]: l’India aveva la più grande estensione coltivata a cotone al mondo, ma era solo il terzo produttore mondiale dopo la Cina e gli USA. La Cina aveva circa la metà dell’area coltivata a cotone dell’India ma aveva una produttività molto maggiore: 671 kg per ettaro contro i 266 kg dell’India. L’India addirittura importava cotone perché non ne produceva a sufficienza per le proprie esigenze. Le cause della bassa produttività erano varie: dalla bassa percentuale di terre irrigate (35%) alla scarsa disponibilità di semi ibridi di qualità, al contrario della Cina.  Il 30% dei contadini indiani seminava ancora il tradizionale cotone Desi non ibrido, i cui semi si potevano autoprodurre, poco costoso ma di basse rese e spesso di scarsa qualità.

Il cotone in India copriva solo il 5% di tutta la terra coltivata, ma consumava il 45% dei pesticidi e il 58% di tutti gli insetticidi. Di questi il 60% era usato per controllare il verme del cotone o American bollworm (Helicoverpa armigera). L’uso indiscriminato e l’abuso negli anni di insetticidi da parte degli agricoltori ha selezionato molti insetti resistenti, tanto che gli agricoltori per combatterli utilizzavano i cosiddetti “cocktail di pesticidi”, una miscela di vari insetticidi da spruzzare anche 30 volte per stagione.

Dopo l’introduzione
Cominciamo ad esaminare il primo argomento, quello da cui discendono tutti gli altri. È vero o meno che il cotone Bt è stato un fallimento? Che non ha mantenuto le promesse? Esaminiamo le rese medie.

Le rese per ettaro del cotone indiano sono disponibili ad esempio sul sito del Ministero del Tessile indiano o su altri siti che compilano statistiche. A parte qualche piccola differenza l’andamento generale delle rese lo vedete nel grafico che mostra le rese in kg per ettaro (kg/ha) al variare nel tempo. 

 

 

 

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Notate un aumento repentino delle rese a partire dal 2002, l’anno in cui è stato introdotto il cotone Bt in India. L’India da paese importatore di cotone è diventata un paese esportatore, ed è passata al secondo posto mondiale dei paesi produttori. La situazione generale è chiara, nel giro di pochi anni l’India ha aumentato notevolmente la propria produzione di cotone e la produttività per ettaro. Nel 2001-2002 l’india produceva 15.8 milioni di balle di cotone, nel 2005-2006 ne produceva 24.4 milioni. Le rese medie per ettaro sono cresciute da circa 300 kg/ha nel 2002-2003 al record di 554 kg/ha nel 2007-2008 per poi fluttuare attorno a 500 negli ultimi anni. Per confronto nel 1982 la produzione era di 200 kg/ha e ci sono voluti 15 anni per arrivare a 300 kg/ha.

Guardiamo ora la percentuale di agricoltori (in verde nel grafico) che nel corso degli anni ha deciso di seminare il cotone Bt:

 

 

 

 


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Se nel 2002 i coltivatori di cotone Bt erano 50.000, nel 2011 sono stati sette milioni, circa il 90%. Quasi tutti insomma hanno deciso di seminare cotone Bt. Se avete visto qualcuno dei video che vi ho segnalato vi sarete accorti che spesso finiscono con dei contadini che giurano di non voler più seminare il cotone Bt. Per loro è bastata una singola cattiva esperienza e non ho motivo per dubitare che sia davvero stata una cattiva esperienza. Come si concilia questo con le cifre che ho mostrato?

Un vecchio adagio dice che è possibile ingannare tante persone per poco tempo, o poche persone per tanto tempo, ma è impossibile ingannare tante persone per tanto tempo. Come è possibile quindi che dal 2002 ad oggi il numero di contadini che piantano semi Bt sia aumentato costantemente? 

Uno dei motivi è sicuramente l’aumento medio delle rese. L’aggettivo “medio” è quanto mai importante perché vedremo che ci sono state, specialmente nei primi anni, delle variazioni notevoli e anche dei fallimenti locali.

La promessa riduzione dei pesticidi? Anche quella si è verificata, e ne abbiamo parlato tempo fa. Non solo ha portato (anche qui nella “media”) ad una diminuzione dei costi che gli agricoltori devono sostenere, ma oltre ad un miglioramento della situazione ambientale vi sono stati anche benefici alla salute, con meno avvelenamenti da pesticidi. 
I semi costano di più ma (sempre in media) gli agricoltori hanno avuto un guadagno netto, come dimostrato ormai da molte decine di studi diversi (qui potete trovare una tabella riassuntiva).

Per quei quattro gatti che ancora mi stanno seguendo e che vogliono leggersi direttamente che cosa dicono i vari studi (che badate bene non sono tutti positivi. Come ho detto la situazione media è chiara ma ci sono state variazioni anche ampie) posso consigliare queste due rassegne Measuring the Economic Impacts of Transgenic Crops in Developing Agricolture during the First Decade e questo del centro ricerche della Commissione Europea Economic Impact of Dominant GM Crops Worldwide: A Review

Insomma, le rese sono aumentate, la produzione pure, i pesticidi diminuiti, il reddito dei contadini aumentato.

A questo punto però qualcosa non torna. E i suicidi? Purtroppo sono una tragica realtà. Solo che forse la spiegazione avanzata dagli attivisti non è così semplice. Se il cotone funziona perché dovrebbero suicidarsi? E se non funziona come mai lo coltivano nel 90% dei casi? Ci sono poi altre cose che non tornano. Come nota giustamente anche un agricoltore nel documentario I Want My Father Back (al minuto 28), se il gene inserito fornisce solo la resistenza ad alcuni parassiti, cosa c’entra con le rese? Perché dovrebbero aumentare così tanto? Può la semplice protezione dai parassiti spiegare un aumento così elevato delle rese?

E quei documentari? A parte le fesserie dei semi che rendono sterili altri semi, non ho dubbi che le persone intervistate abbiano raccontato storie vere. Tante storie singole. Come riconciliare quelle storie con i dati che vi ho mostrato? E per carità, mica sono il primo a raccontarli. È una cosa ben nota nella letteratura scientifica, ma nessuno ci gira un documentario.

Ci si deve allora chiedere quanto rappresentative siano quelle storie. Quanto riflettano una realtà molto complessa e variegata. Uno guarda questi documentari e automaticamente, e inconsciamente, trasferisce l’immagine che ne riceve alla totalità degli agricoltori. Quello nel documentario diventa il “tipico” coltivatore di cotone. Ed è questo solitamente l’intento di chi produce questi documentari: raccontare una storia e suggerire che sia rappresentativa della realtà. Di fronte a grandi numeri però non si può fare a meno di usare la statistica, guida preziosa per non perdere di vista la visione globale. Ed è sempre utile ricordare cosa diceva Trilussa a proposito della statistica.

LA STATISTICA

Sai ched’è la statistica? E’ ‘na cosa
che serve pe’ fa’ un conto in generale
de la gente che nasce, che sta male,
che more, che va in carcere e che sposa.

Ma pe’ me la statistica curiosa
è dove c’entra la percentuale,
pe’ via che, lì, la media è sempre eguale
puro co’ la persona bisognosa.

Me spiego, da li conti che se fanno
seconno le statistiche d’adesso
risurta che te tocca un pollo all’anno:

e, se nun entra ne le spese tue,
t’entra ne la statistica lo stesso
perchè c’è un antro che se ne magna due.

Siamo in cento e ognuno mediamente mangia un pollo a testa. Io non ne mangio neanche uno, e questo significa che un altro “se ne magna due”. Ecco, io credo che spesso si racconti la storia di chi non mangia il pollo suggerendo implicitamente che sia la situazione generale. È doveroso non dimenticarsi di chi il pollo non lo mangia, e attirare l’attenzione sulla sua situazione. Ma non è intellettualmente onesto cercare di suggerire l’idea che anche gli altri 99 non mangiano il pollo.

La prossima volta parleremo direttamente dei suicidi mostrando qualche dato e mettendo in luce qualche incongruenza.

 

Bibliografia

[1] Technological developments and cotton production in India and China
CURRENT SCIENCE,VOL. 80, NO. 8,25 APRIL 2001 
[2] Every Thirty Minutes. Farmers suicides, human rights and the agrarian crisis in India.
[3] Peer-reviewed surveys indicate positive impact of commercialized GM crops
Nature Biotechnology volume 28 number 4 APRIL 2010
[4] Measuring the Economic Impacts of Transgenic Crops in Developing Agricolture during the First Decade 2009, International Food Policy Research Institute (IFPRI)
[5] Economic Impact of Dominant GM Crops Worldwide: A Review. EU Commission Joint research Centre

Dichiarazione di conflitto di interessi:
Sono un ricercatore pubblico, non sono pagato da nessuna multinazionale e non mi occupo di biotecnologie nel mio settore di ricerca, per cui non ho alcun conflitto di interessi. Moltissima ricerca in questo campo è svolta da scienziati pubblici, anche in Italia. Con questi articoli cerco di spiegare che la tecnica del trasferimento da una specie all’altra di geni che interessano non è “buona” o “cattiva”. È semplicemente uno strumento, ed è stupido privarsene.

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