Durante la recente campagna elettorale abbiamo scoperto che il Comune di Palermo ha a libro paga, direttamente o indirettamente attraverso le sue partecipate, circa 22.000 dipendenti contro gli 11.000 di Torino. I relativi stipendi assorbono l’85% delle risorse comunali che sono peraltro destinate a calare per via dei tagli ai trasferimenti statali e per gli ingenti debiti accumulati.

Alcuni candidati in vena di onestà intellettuale non vedevano quindi altra soluzione che ipotizzare dei sostanziosi tagli del personale. È quello che succede nelle aziende private quando cala il fatturato mentre aumenta l’indebitamento: soltanto in tempi di finanza pubblica allegra è stato possibile fare diversamente, ma questi tempi sembrano ormai definitivamente alle nostre spalle.

In genere, la spesa pubblica viene valutata diversamente da quella privata: da quest’ultima ci si aspetta che concorra direttamente alla formazione dell’utile aziendale o del valore per gli azionisti o anche per tutti gli altri portatori di interessi legati all’azienda stessa (lavoratori, clienti, ambiente, territorio, ecc.) mentre si è soliti valutare la spesa pubblica in termini di benefici collettivi. È evidente che i benefici di tanta spesa pubblica a Palermo rimangano spesso misteriosi, tanto da consolidare l’impressione che gli unici beneficiati siano gli stessi stipendiati mentre tutta la macchina comunale non rappresenti altro che un gigantesco stipendificio.

Ma esisterebbe un’alternativa teorica al licenziamento di tante persone? Ne immagino una sola: ribaltare completamente la visione palermitana circa il pubblico impiego. Altrove la qualità della burocrazia rappresenta ad esempio un fattore immateriale che attira gli investimenti e rende migliore la condizione di vita dei cittadini. Se una città come Palermo impiega il doppio del personale di altra più grande ed efficiente città d’Italia, le possibilità sono due: o li sotto impiega perché assunti per inconfessabili esigenze clientelari oppure li valorizza al massimo per competere come area urbana capace di promuovere alta qualità della vita, sviluppo economico, investimenti e turismo.

È la stessa differenza, percepibile anche a prima vista, tra un una modesta locanda e un resort di categoria 5 stelle lusso dove la differenza la fa soprattutto la professionalità e l’orientamento al cliente del personale impiegato. L’alternativa ai licenziamenti, quindi, non può che essere quella in cui si arrivi a breve ad una chiara percezione di vivere in una città a 5 stelle lusso da parte degli stessi cittadini, degli operatori economici e dei turisti. Una città tenuta a specchio e che offra servizi efficienti attraverso gente che lavori sodo anche perché, come in un grande albergo, non si tratta di svolgere mansioni particolarmente difficili, ma semmai di compierle con amore, cura per i dettagli e attenzione verso gli utenti.

Ieri mattina ho visto un camioncino della partecipata comunale Gesip disperdere per strada la sfalciatura che trasportava perché non coperta da un banale telo: ecco il tipico esempio di ciò che non serve o che non possiamo più permetterci, il lavoro fatto male. Suggerirei al neoeletto sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, di dare alla propria organizzazione amministrativa degli obiettivi misurabili e apprezzabili da tutti i cittadini che comportino, in caso di mancato raggiungimento, un salutare taglio delle teste, a partire dai vertici responsabili fino ai livelli più bassi. In ambito lavoristico si chiama giusta causa, ma per Palermo sarebbe una santa causa.

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