È SOLO PER CASO – i picciotti la chiamano “fortuna” – che l’attentatuni riesce a colpire il suo bersaglio. Il botto sull’autostrada di Capaci viene studiato per un corteo di blindate che sfrecciano a 160 chilometri all’ora. E invece quel 23 maggio 1992, Giovanni Falcone alla guida di una Croma bianca, strappa per errore le chiavi dal cruscotto, facendo rallentare di colpo la vettura fino a 80-90 chilometri orari. Alle 17:56, il boss Giovanni Brusca schiaccia il telecomando. I 500 chilogrammi di tritolo, che i picciotti hanno inserito in un tunnel sotto l’autostrada, esplodono e fanno saltare la prima blindata del corteo, la Croma marrone, guidata dall’agente Vito Schifani. A bordo ci sono anche Antonio Montinaro e Rocco Di Cillo: muoiono tutti sul colpo. Dietro, arriva la Croma bianca che però va troppo piano. Non viene sfiorata dalla deflagrazione, ma si schianta su una montagna di detriti e pezzi di asfalto strappato. L’urto è micidiale. Qualche ora dopo, il cuore di Falcone e quello di Francesca Morvillo si fermano per sempre. “Un colpo di fortuna”, commenta Gioacchino La Barbera. Quella stessa sera, Totò Riina può brindare con i capi di Cosa Nostra alla fine del “nemico numero uno”.

Sono passati vent’anni dalla strage di Capaci, che getta il Paese nel caos e inaugura quella che il pentito Gaspare Spatuzza oggi chiama la strategia della tensione terroristico-mafiosa: una campagna di morte che serve a spianare la strada al capovolgimento politico-istituzionale e a preparare la nascita della Seconda Repubblica. Ma ancora vent’anni dopo, la verità giudiziaria sul botto di Capaci, scolpita in cinque sentenze (frutto di due procedimenti giudiziari) racconta solo di un proletariato mafioso agitato dalla furia vendicativa del boss Totò Riina, che vuole la guerra dopo la pioggia di ergastoli confermati dalla Cassazione nel maxi-processo. Questo ci raccontano i processi conclusi con sentenze di colpevolezza: la dinamica di una strage pianificata ed eseguita da boss e soldati. Sicari e capimafia.

EPPURE la natura politica dell’attentatuni non è mai sfuggita agli inquirenti che hanno ricostruito come l’uccisione di Falcone, all’inizio pianificata a Roma con un semplice colpo di pistola, sia stata trasformata in un’azione criminale dimostrativa, devastante. E del resto, Totò Cancemi, già alla fine del ’93, riferisce di aver saputo da Raffaele Ganci che Riina fu portato “per la manina” a confezionare la strage di Capaci. Da chi? Da “persone importanti”. Solo nel ’98, Cancemi rivela che quelle “persone importanti” – di cui Ganci non gli ha mai fatto i nomi – sono Berlusconi e Dell’Utri. La procura di Giovanni Tinebra (la stessa che nel frattempo avalla il depistaggio di Vincenzo Scarantino su via D’Amelio) apre un’indagine su “Alfa” e “Beta”, nomi in codice di Berlusconi e Dell’Utri, sospettati di essere i mandanti delle stragi del ’92, ma non trova le prove del loro coinvolgimento. E così il gip Giovambattista Tona il 3 maggio 2002 archivia. 

Dopo il clamore dell’inchiesta su “Alfa” e “Beta”, la procura di Tinebra (poi consulente del ministro Alfano) si concentra sulla manovalanza mafiosa. Si arriva così alle sentenze che inchiodano il gotha di Cosa Nostra.

La Corte d’assise di Caltanissetta (26 settembre ‘97) infligge 24 ergastoli a Riina, Bernardo Provenzano e ai boss della cupola di Cosa Nostra. A Brusca, 26 anni di carcere. Pene minori a tutti i pentiti del commando: Cancemi (21 anni), Giovan Battista Ferrante (17 anni); Gioacchino La Barbera (15 anni); Calogero Ganci e Mario Santo Di Matteo (15 anni). Alla fine, la Suprema Corte, in due sentenze (il 30 maggio 2002 e il 16 settembre 2008) mette il bollo conclusivo su 27 ergastoli per capi e gregari mafiosi, dopo un processo-stralcio celebrato a Catania.

LE CARTE processuali sono tutte qui. Migliaia di pagine e di verbali che ipotizzano complessi scenari politico-criminali, ma alla fine raccontano la morte di Falcone come un affare di padrini e soldati. Killer e capi-cosca. E se Antonio Ingroia oggi dichiara che la strage Falcone aveva “finalità eversive”, la sua – ancora una volta – resta solo un’ipotesi. Almeno fino a prova contraria.

da il Fatto Quotidiano del 20 maggio 2012

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