Prosegue il nostro viaggio nel mondo della musica indipendente e oggi incontriamo una band nata nel 2009 da un’idea del bassista Andrea Fusario, che dopo aver lasciato i Virginiana Miller ed essersi preso una lunga pausa di riflessione musicale, quando ha sentito l’esigenza di rimettersi in gioco ha contattato delle vecchie conoscenze – Edoardo Bacchelli (voce), Filippo Trombi (chitarre) e Gianluca Pelleschi (scrittore dei testi) – per proporre loro il progetto, Piccoli Animali Senza Espressione, nome ispirato dal racconto dello scrittore americano David Foster Wallace, morto suicida nel 2009. In realtà, avrebbe dovuto essere il titolo di una canzone del disco, ma poi hanno deciso di utilizzarlo come nome del gruppo. Inizialmente l’idea era quella di formare una band un po’ anomala con basso, voce, tastiere ed elettronica poi progressivamente, il gruppo ha assunto una fisionomia più canonica, con l’ingresso di Filippo alla chitarra e agli arrangiamenti e, per ultimo, quello di Luca Brunelli Felicetti alla batteria.  “This Incanto” (uscito per Seahorse Recordings) è il titolo del loro primo album: composto da dieci canzoni è un disco genere elettropop che inseguendo un’armonia minimale mette in scena un saliscendi emozionale, basato su riflessioni di vita quotidiana e caratterizzato da una linea che unisce i brani in maniera tutt’altro che retta. C’è chi dice che per rifarsi una vita, tocca morire due volte (David Berman). Non la pensa allo stesso modo Andrea Fusario che abbiamo intervistato anche per saperne di più sulla sua nuova band.

This incanto” è il vostro primo album: mi raccontate la genesi del disco, cos’è che ha ispirato le canzoni e il motivo per cui avete scelto di intitolarlo così?
Riguardo al nostro sistema di lavoro, in linea generale all’interno del gruppo vige una divisione dei compiti abbastanza netta: c’è chi partorisce l’idea iniziale per i pezzi (Edoardo e me), chi sviluppa quell’idea per darle una forma canzone (Filippo) e chi ci mette le parole (io, Gianluca). E ora c’è l’ingresso in formazione di Luca, destinato a cambiare un po’ il
modus operandi e ad ampliare gli orizzonti. Quindi, è difficile dire cosa abbia “ispirato le canzoni” perché si tratta più di un passaggio di consegne nel corso del quale più ispirazioni si avvicendano e si amalgamano le une con le altre. Il titolo invece, This incanto, si tratta in prima istanza di un gioco di parole che ci sembrava, come dire, simpatico. Ma dotato anche di un suo significato preciso, in qualche modo organico all’impianto testuale del disco. Nei testi ricorre, infatti, questa ambivalenza tra un atteggiamento disincantato e la volontà di recuperare l’Incanto, da edificare magari sulle ceneri del Disincanto stesso. Quindi, insomma, tra il disincanto fonetico e questo incanto (questo “nuovo” incanto) della traduzione letterale.

Qual è il messaggio che vorreste passasse dall’ascolto del vostro album?
Non crediamo si possa parlare di un vero e proprio messaggio. Come direbbe, e come ha effettivamente detto, David Lynch: “Se voglio mandare un messaggio, vado all’ufficio postale”. Scherzi a parte, ci piacerebbe, però, che chi ascolta il disco gli dedicasse un po’ del suo tempo. Ci abbiamo messo molta passione e molta cura e, insomma, il messaggio potrebbe essere: l’epoca del peer to peer musicale ha accelerato i tempi fruitivo-compositivi, noi abbiamo provato a fare le cose all’antica, registrando un disco che magari chiede all’ascoltatore un po’ di “pazienza”, se così si può dire. Può sembrare un discorso da vecchi rimbambiti, del tipo “ai miei tempi…”, forse lo è, ma insomma questa cosa la pensiamo davvero.

Dalle canzoni emerge un senso di frustrazione verso il sistema. Nella fattispecie quello musicale. Che opinione avete della scena musicale italiana? Cos’è che pensate funzioni e non nell’industria musicale italiana?
In realtà, non credo ci sia niente di così specifico nei nostri testi, almeno non a livello intenzionale, conscio. Riguardo alla scena musicale italiana, però, forse per motivi anagrafici ci sentiamo idealmente più vicini ad artisti del nostro stesso evo di idee, se così si può dire, gruppi come i Virginiana Miller o i Perturbazione. Il cosiddetto nuovo cantautorato italiano, invece, lo sentiamo forse più lontano dal nostro modo di intendere la musica e quindi ci interessa meno. Ma crediamo davvero che si tratti di un discorso più generazionale che altro. Riguardo, infine, alla questione dell’industria musicale italiana, sarebbe un discorso lungo e difficile, che non crediamo di essere neanche in grado di affrontare, sinceramente. È l’industria musicale mondiale a vivere una crisi profonda e irreversibile: più o meno dall’epoca di Napster si parla di necessità di cambiamento, di periodo di transizione ma non ci sembra che siano stati fatti dei veri passi avanti. Ma come avrebbe detto il Briest di Fontane, “è un campo troppo vasto”.

Cosa vi aspettate dal futuro? Quali sono le vostre ambizioni?
La nostra ambizione? Avere la possibilità di portare avanti il nostro progetto, di continuare a dire quello che abbiamo da dire. In fondo, come p.a.s.e. siamo degli esordienti, il nostro è un discorso appena iniziato che però, crediamo e speriamo, merita di essere sviluppato. Stiamo già lavorando sui nuovi pezzi e ci rendiamo conto di essere un gruppo in evoluzione.

Qual è il vostro rapporto con la tecnologia? E con internet?
La tecnologia ha un ruolo importante anche nella nostra musica, visto che la componente elettronica non è affatto accessoria. Internet, invece, che dire? A fini promozionali, forse dovremmo avere con la rete un rapporto più stretto, ormai il marketing in tutte le sue declinazioni più o meno “virali” passa da lì. Abbiamo la nostra pagina facebook che aggiorniamo con buona regolarità, ma ci rendiamo conto che si potrebbe fare di più.

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