“Abbiamo da poco vinto un concorso per la pianificazione della zona di espansione di Dalian”. Una città a est di Pechino, su una lingua di terra che si allunga nel Mar Giallo. Qui sorgeranno due chilometri quadrati di nuove costruzioni: l’aeroporto, la parte residenziale, gli edifici pubblici, gli uffici, il treno sopraelevato. Progetti su larga scala che Riccardo Minervini, architetto di 37 anni, realizza in Cina con il suo studio RM, fondato in partnership con uno studio più grande, lo Jao Design International. “Prima lavoravo a Roma – racconta –, ma in Italia i grandi progetti finiscono sempre alle solite persone, magari con agganci politici”. Così nel 2007 la decisione di partire per un Paese in forte espansione.

Una scelta fatta ancor prima che da noi si iniziasse a parlare di crisi. “Ho contattato uno studio di Milano che aveva una struttura in Cina – ricorda -. Mi hanno richiamato e in 15 giorni ho chiuso casa. Sono partito senza conoscere una parola di cinese”. Destinazione Tianjin, 150 chilometri a sud di Pechino. Subito le prime difficoltà: “Soprattutto la lingua. A Tianjin il 95% delle persone non parla inglese. Bisogna avere spirito combattivo, poi le cose si risolvono”. Essenziale imparare a cavarsela per strada, magari grazie ai foglietti scritti da un collega del posto, l’indirizzo di casa sempre in tasca. Poi qualche parola. “Ora riesco a sopravvivere anche in cinese. Due volte alla settimana viene in ufficio una professoressa per un’ora. E nel week end cerco di studiare un po’”.

Dopo due anni a Tianjin, Riccardo si trasferisce a Pechino, dove un anno fa apre lo studio RM. “Stiamo crescendo e ora vogliamo sviluppare il business anche fuori dalla Cina – spiega -. Ad esempio a Singapore, che è l’ombelico dell’Asia del Sud”. Nello studio lavorano già 16 persone: nove giovani architetti sono arrivati dall’Italia. “Ho stretto un accordo con la facoltà di Valle Giulia di Roma per far fare il praticantato all’estero, qui da noi”.

Altri ragazzi arriveranno nei prossimi mesi non solo dall’Italia, ma anche dal resto d’Europa. “Chi ha studiato in Occidente – continua – è in grado di dare un prodotto diverso da quello cinese, con una qualità maggiore e più attenzione al design, che è ancora il punto forte dell’Italia”. E magari può contribuire alla diffusione di quell’attenzione per l’ambiente che in Cina finora non c’è stata. “Pian piano si stanno iniziando ad adottare anche qui criteri di sostenibilità e sistemi occidentali nella pianificazione delle città. Ma per diversi anni la qualità dei progetti non è stata eccelsa”.

Problemi in questo senso ce ne sono ancora, dovuti a una crescita velocissima: “Il boom economico è stato simile a quello del nostro dopoguerra. Ora città come Pechino e Shangai si sono un po’ fermate, ma nelle città secondarie si costruisce molto: centri commerciali, uffici, musei”. Da una pianificazione urbanistica come quella di Dalian, in cui si pensa alla città nel suo complesso, possono scaturire progettazioni in scala più piccola: il disegno di un singolo edificio, l’interior design di un hotel da 40mila metri quadri. Un architetto ha così la possibilità di fare in poco tempo la stessa esperienza che in Italia richiederebbe diversi anni.

A rimanere, però, non è solo la crescita professionale. “Per realizzare i progetti ho girato la Cina in lungo e in largo – racconta Riccardo -. Sono stato nella Mongolia Interna, nello Sinkiang, in Tibet, zone occupate dallo Stato cinese dove trovi culture completamente diverse da quella di Pechino”. La curiosità per quello che non conosci è un forte stimolo. Eppure non tutti si adattano: è capitato che qualche ragazzo dello studio sia fuggito dopo pochi mesi. “Magari perché a Pechino non riusciva ad andare a correre al parco per l’inquinamento. Oppure perché non gli piaceva il cibo”. Riccardo, invece, lo trova fantastico: “Certo, ci sono delle cose che non mangio, come i cavallucci marini in brodo, i calabroni fritti, le tartarughe. Qui c’è un detto: i cinesi mangiano tutto quello che ha quattro gambe, tranne i tavoli”.

In Italia ormai passa solo due settimane a Natale e due in estate: “Quando vengo – ammette – mi sento a disagio, perché trovo persone sempre più avvilite. Ho amici che a 37 anni hanno un lavoro ancora precario, qualcuno è tornato addirittura a vivere con i genitori”. A dire il vero, però, qualcosa che manca c’è: “Pechino non è come Roma, dove in pochissimo tempo passi dalla collina al mare. Spostarsi è più difficile, ti devi organizzare in modo diverso. Insomma, niente più giretto in moto a Fregene”.

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Giovani e crisi, siamo messi così male?

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