Mentre stavano affluendo i dati memorabili delle amministrative 2012 che per quanto “straordinari” hanno semplicemente radiografato la realtà con i numeri, è arrivata anche la notizia che Pd e Pdl con l’assenso dell’Udc, votati tutti insieme mediamente nelle principali città da poco più del 35% degli elettori, si sono accordati per tagliare il 33% dell’ultima tranche dei “rimborsi elettorali”.

Come sempre, ma questa volta ancora di più, a commentare a caldo in modo veritiero i risultati sono state le facce dei leader dei partiti.

Quelle di Vendola e di D’Alema, che poi sarebbero “i vincitori”, ospiti della diretta elettorale di Mentana su La7  erano comprensibilmente scure.

Anche se i toni sono stati molto differenti: il leader di Sel davanti al risultato sbalorditivo solo per chi viva fuori dalla reltà, ma oggettivamente superiore alle aspettative del Movimento 5 stelle, non si è scagliato più contro quella che fino alla vigilia definiva “l’onda melmosa dell’antipolitica” e contro “i grugniti” di Beppe Grillo.  

Ha parlato invece di “un movimento che ha capacità di radicamento a cui dobbiamo guardare con attenzione ed esprimere rispetto” mentre riconosce che “il centrosinistra non viene percepito come alternativo al centro destra…” sulla base della elementare ed incontrovertibile evidenza, per qualsiasi persona di medio buon senso, che i voti in fuoriuscita da PDL e Lega non sono minimamente andati ai partiti del centrosinistra.

Con D’Alema invece la musica è stata decisamente diversa, probabilmente perché la delusione mista a rabbia per i risultati ottenuti dal movimento dell’uomo che ha definito con sommo disprezzo “un mix tra il Gabibbo e il Bossi prima maniera” è quasi incontenibile.

La lettura del voto come un innegabile successo di quella che, con più accanimento di tutti, il lìder maximo ha da sempre bollato come pericolosa deriva populistica e qualunquista che “ha tutti i peggiori difetti dei partiti senza raggiungerne la qualità” è per lui un affronto personale a cui ha reagito bacchettando subito il conduttore: “ridurre l’analisi a questo è un po’ poco!” 

E ha sciorinato la sua di analisi: e cioè che il Pd “stravince” con la stragrande maggioranza di sindaci; che “è l’unico grande partito nazionale” e soprattutto non vuole sentire parlare di “partiti” accomunati dal comune discredito e dalla sfiducia generalizzata. Tanto che si è rivolto  incredibilmente a Mentana e ai giornalisti presenti, quasi fossero tutti suoi personali avversari politici da cui si sente attaccato, con uno sprezzante “..Se ritenete opportuno governare il paese… se poi avete altri programmi..” 

E purtroppo, anche se con toni e passaggi decisamente meno sprezzanti e lievemente meno fuori dalla realtà, un copione analogo è stato interpretato da tutti i leader del Pd, da Bersani alla Finocchiaro. E da ultimo un po’ fuori copione e soprattutto fuori ruolo si è accodato persino l’ex migliorista, mai pentito,  Giorgio Napolitano che, anche se con una battuta  sull’irripetibilità del boom, quello degli anni ’60, non ha resistito al richiamo della foresta.

In casa Pd dimenticano il “dettaglio” non proprio irrilevante che là dove ottengono un buon risultato come a Genova lo devono a un candidato outsider che non era il loro, come Doria, e se guardano ai risultati di lista del loro partito, si attestano su percentuali che non sono decisamente da capogiro in tutte le maggiori città.

Ma come era prevedibile il capolavoro rimane Palermo, dove Leoluca Orlando solo contro tutti, dopo il pasticcio brutto delle primarie inquinate, ha rischiato di diventare sindaco al primo turno e la prova del ballottaggio si annuncia per il Pd, tra contraddizioni e pateracchi come una autentica via crucis. Tanto che qualcuno come la sempre molto concreta Anna Finocchiaro, davanti al  risultato schiacciante del 48% per Orlando sostenuto dall’Idv, Sinistra e gli ecologisti di Palermo, contro il 17,7% di Fabrizio Ferrandelli con il Pd che ha ottenuto un voto di lista del 7,7%, non sbarra del tutto la porta a qualche tardivo ripensamento. 

Palermo, anche se ovviamente non è un caso da generalizzare, è l’esempio di quello che il maggiore partito della sinistra non avrebbe dovuto fare, e continua irrimediabilmente a ripetere.  

E cioè spaccarsi come una mela, con i dirigenti locali Cracolici e Lumìa che a Rita Borsellino, una garanzia di legalità preoccupante,  hanno preferito un candidato arrembante, piacione e disinvolto sul quale alle primarie si sono indirizzati, non per caso, i voti di Raffaele Lombardo imputato di associazione mafiosa, che poi alle vere votazioni sono in buona parte ritornati “a casa”.

Il risultato, più macroscopico che altrove, è stato che della liquefazione del Pdl che insieme all’Udc ha portato Vincenzo Costa al 13%, non ha minimamente beneficiato il centrosinistra e tanto meno il Pd.

E meno male che in extremis, e apparentemente contro ogni opportunità, si è rimesso in gioco Leoluca Orlando, uno che obiettivamente aveva “già dato”, ma che oggi può dichiarare di “essere rinato, non solo politicamente” e  incredibilmente, grazie all’ottusità e alla furbizia autolesionista degli apparati di partito, è insieme al boom del Movimento 5 Stelle  “la sorpresa” di queste non ordinarie amministrative.

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