Pochi giorni fa, a Buenos Aires, è stata pubblicata la biografia di Jorge Videla, il generale golpista a capo del triumvirato che nel 1976 instaurò una fra le dittature più feroci del Novecento, colpevole di aver fatto scomparire nel nulla trentamila desaparecidos. “Noi della giunta avevano concordato che fosse questo il prezzo da pagare per vincere la guerra contro la sovversione, e che tale decisione dovesse rimanere nascosta, perché era necessario che la società non se ne accorgesse. Dovevamo eliminare un grande gruppo di persone che non potevano essere portate in tribunale, né uccise davanti a tutti”. Solo pochi anni prima, nel Cile di Pinochet, le esecuzioni di prigionieri negli stadi aveva suscitato l’indignazione del mondo, e la giunta argentina non intendeva ripetere lo stesso errore.

I giornali italiani hanno ampiamente riportato questa notizia, con toni di vibrata indignazione. Nel frattempo, continuavano a giungere le immagini di morti ammazzati in Siria, visibilissimi, e tuttavia muti, perché i loro volti infranti, i loro corpi torturati non ci interpellano, nemmeno quando si tratta di bambini.

È una cecità selettiva, che si attiva ogniqualvolta un gruppo umano venga investito da uno stigma; nel caso della Siria, quello del fondamentalismo islamico. 

Non importa che intere città, da più di un anno, scendano disarmate in piazza e che, davanti ai carri armati, uomini, donne e bambini chiedano libertà e dignità, indipendentemente dalla loro confessione religiosa: meglio il “laico” Assad che il “pericolo islamista”. Come è possibile che l’apporre a un intero gruppo umano un marchio di sospetto, una parola non indagata che evoca avversione, ottenga il risultato di renderlo invisibile ai nostri occhi, e questo proprio mentre viene mostrato, come mai è successo in precedenza, da un fiume ininterrotto di immagini sul web? Le immagini della carneficina siriana vengono screditate a priori, rese mute, inoffensive per la nostra coscienza civile: non ci interpellano. 

La questione dell’invisibilità del crimine è stata fondamentale nella Shoah. La necessità di mantenere nascosto l’eccidio di sei milioni di ebrei smaltendone industrialmente i cadaveri giunse al suo apice durante l’Aktion Reinhard, quando i campi di sterminio vennero edificati nel folto delle foreste polacche – a Sobibor, a Belzec, a Treblinka – così che per molto tempo fu consentito ai contemporanei di proclamare la propria irresponsabilità. Ora però vediamo, vediamo tutti i giorni, eppure siamo ciechi.

L’ex generale Videla è stato accusato di aver deciso il destino dei neonati venuti al mondo nei centri clandestini di detenzione, sottratti alle prigioniere che venivano uccise subito dopo il parto e consegnati in adozione a famiglie conniventi con la giunta militare. Per cinquecento sottrazioni di neonati, l’ottantaseienne criminale golpista può vedersi comminati fino a 50 anni di carcere. Le sue parole disumane, prive di qualsiasi pentimento, hanno fatto il giro del pianeta.

Dall’inizio della rivolta siriana sono stati assassinati 1089 bambini; molti di loro sono stati torturati, come riportano le organizzazioni per i diritti umani e l’Unicef: una pratica che non si era mai vista, neppure tra i macellai argentini. I bambini vengono torturati – come il tredicenne Hamsa el-Kathib, orribilmente menomato, evirato e restituito cadavere, livido e informe, alla famiglia – perché costituiscano un monito per tutti: nessuna ferocia, nessuna ignominia verrà risparmiata a chi osa levare la propria voce contro il civile, occidentale, laico Assad.

 Ma noi siamo tranquilli. Noi continuiamo a sdegnarci per Videla. Non c’è bisogno che i desaparecidos siriani ci vengano nascosti: riusciamo da soli a non vederli.

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