Via Palestro, 27 luglio 1993: l’esplosione poco dopo le undici di sera. Centro di Milano, a due passi il palazzo dell’Informazione, poco oltre la Scala, la sede del Comune, piazza Duomo. Cinque morti e decine di feriti. E’ l’ultima fase dello stragismo mafioso. Salvatore Riina si trova in carcere da gennaio. Fuori il braccio armato di Cosa nostra sta nel quartiere palermitano di Brancaccio. Comandano i fratelli Graviano. Da loro arrivano gli ordini per le bombe di Firenze (26 maggio via dei Georgofili) e per quelle di Roma. Su tutte indaga la procura del capoluogo toscano. Giungeranno sentenze definitive. Anche per Milano. Con un piccolo particolare: quello del Padiglione d’arte contemporanea è l’attentato meno chiaro di tutti e sul quale sono stati individuati pochissimi elementi. Tutto si è giocato sulle parole dei collaboratori di giustizia. Una tragedia a tal punto oscura che solo nove anni dopo, il 14 gennaio 2002, gli investigatori individuano i basisti e arrestano i fratelli Formoso, Giovanni e Tommaso. Anche qui il processo corre rapido: ergastolo in primo e in secondo grado. Con ricorso respinto in Cassazione. Nulla da dire, dunque? Affatto perché diciannove anni dopo, le parole di Gaspare Spatuzza colmano vuoti e dubbi. Sono parole pesantissime perché proferite da un collaboratore di giustizia che non solo si è autoaccusato di decine di delitti, ma che ben tre procure (Palermo, Firenze e Caltanissetta) hanno ritenuto credibile. Tanto per capire: Spatuzza, addirittura, fa chiarezza sull’auto che, imbottita di oltre cento chili di tritolo, esplode in via Palestro. Fin ad oggi nulla si sapeva se non che la Fiat Uno fosse stata rubata in via Baldinucci nel quartiere Bovisa.

L’uomo di Brancaccio racconta di Milano in diversi interrogatori davanti ai pm di Firenze. Dell’argomento inizia a parlare nel 2008. E tra le tante cose importanti ne dice due decisive: fa il nome dell’ultimo esecutore materiale mai indagato da Firenze e scagiona Tommaso Formoso dall’accusa di strage per aver fornito supporto logistico al commando mafioso, sostenendo di aver avuto sempre rapporti con il fratello Giovanni. Dirà: “Tommaso Formoso non l’ho mai conosciuto”.

Le sue sono dichiarazioni che aggiungono nuove prove. Da qui la richiesta dei legali di Formoso di revisione del processo d’Appello che nel 2005 conferma l’ergastolo. A fine marzo il fascicolo arriva sul tavolo della Corte d’Appello di Brescia. Il procedimento sarà liquidato in due udienze. Nella prima viene sentito lo stesso Spatuzza. Nella seconda, due giorni fa, i giudici respingono la richiesta di revisione. Le motivazioni saranno rese note tra novanta giorni. Ma fin d’ora si può dire una cosa: il tribunale di Brescia sembra non credere alle parole di Spatuzza.

Giochi chiusi, dunque e un’occasione sprecata non solo per Tommaso Formoso ma anche per tutti i cittadini milanesi che, con la riapertura del processo sui basisti, avrebbero potuto sperare in una maggiore chiarezza. La stessa che non è mai stata fatta, non solo dai giudici ma dagli stessi organi di stampa che hanno liquidato in pochi e rari articoli la vicenda dei due fratelli che diedero alloggio agli stragisti.

LA RICOSTRUZIONE DELLA CORTE: L’UOMO DI ARLUNO

In via Palestro la bomba esplode intorno alle 23. Ma solo due anni dopo s’inizia a capire qualcosa. A Palermo viene arrestato il camionista Pietro Carra. Fermato, inizia a collaborare. I suoi verbali saranno ritenuti decisivi dai giudici di primo e secondo grado. Carra racconta che fu lui a portare l’esplosivo al nord. Di più: indica come destinazione finale il paese di Arluno.

Carra arriva in Lombardia il 23 luglio, quattro giorni prima della strage. Non è solo, ma in compagnia di Cosimo Lo Nigro, artificiere e uomo di fiducia dei Graviano. Alle undici del mattino i due sono ad Arluno. Carra racconta di essere stato raggiunto da una persona che li aiuterà a scaricare l’esplosivo. E’ il personaggio decisivo, subito ribattezzato “l’uomo di Arluno”. Contemporaneamente gli investigatori della Dia di Milano stilano una lista di nomi legati a Cosa nostra e residenti nel comune lombardo. Salta fuori il cognome Formoso. Ma non per Tommaso, bensì per il fratello Giovanni, già coinvolto in indagini di mafia, e ritenuto vicino ai fratelli Graviano.

IL PULCIAO E IL CASOLARE DI CARONNO PERTUSELLA

A questo primo quadro vanno aggiunte le dichiarazioni di un altro pentito, Antonio Scarano “le cui conoscenze su questa strage – scrive la Corte d’Assise di Firenze – sono scarne e frammentarie”. Il collaboratore racconta di aver ascoltato un dialogo tra Cosimo Lo Nigro e Francesco Giuliano (entrambi condannati per la strage). Fornisce, dunque, un sentito dire. Che però risulterà decisivo. I due uomini di Cosa nostra parlano di Milano e del luogo dove hanno dormito nei giorni precedenti la strage. Non danno indicazioni geografiche, non fanno nomi, dicono solo di aver “dormito in un pulciaio e di aver mangiato pane e salame”. Tanto basta. Gli investigatori mettono assieme gli indizi. Scoprono che un parente dei Formoso è proprietario di un casolare abbandonato a Caronno Pertusella. E’ il pulciaio? Secondo i giudici sì. Convinzione sostenuta dai rilievi tecnici che individuano due dei sei componenti dell’esplosivo trovato sul luogo della strage. L’uomo di Arluno prende lentamente forma. Pietro Carra ne darà una descrizione fisica che i giudici ritengono compatibile con Tommaso. A chiudere i giochi un alibi ritenuto traballante: Formoso dice di trovarsi in Calabria per assistere all’operazione della suocera. Tutti confermano. Ma sono parenti. La cosa non funziona. I giudici condannano.

LA VERSIONE DI SPATUZZA

Diciassette anni dopo quel lacunoso verdetto d’Appello, le parole di Spatuzza cambiano radicalmente le carte in tavola. Al centro c’è sempre la giornata del 23 luglio. La stessa raccontata da Carra. All’epoca l’ex killer di Brancaccio si sposta per tutta Italia. Deve organizzare le bombe. Quel giorno, assieme a Francesco Giuliano, arriva a Milano in treno da Roma. In stazione li attende Marcello Tutino, il cui coinvolgimento nella preparazione della strage non era mai emerso prima. Suo fratello Vittorio, invece, è stato condannato. Spatuzza racconta di un incontro in piazza Duomo con Cosimo Lo Nigro. Dopodiché, a bordo di un’auto, arriva in una villetta di Arluno, anche questa intestata a Tommaso Formoso. Nell’appartamento però lui non c’è. Assieme a Spatuzza ci sono Giovanni Formoso, Vittorio e Marcello Tutino, Cosimo Lo Nigro, Francesco Giuliano.

TUTTA UN’ALTRA STORIA

Insomma, Spatuzza racconta realmente un’altra storia. Ad esempio, lui parla sempre e solo di una villetta e non del casolare di Caronno Pertusella. Gli uomini dei Graviano sono, dunque, ad Arluno. Ed è da qui che partono per andare a recuperare l’esplosivo portato da Carra. “Per ritirare la consegna – dice Spatuzza davanti ai giudici di Brescia – si muovono Lo Nigro, Marcello Tutino e Giovanni Formoso, io e Vittorio Tutino siamo rimasti a casa del Formoso, e mi sembra che ci sia andato anche Giuliano Francesco”.

Qualcosa inizia a non tornare: secondo Carra la bomba fu consegnata da lui e Lo Nigro a Tommaso Formoso attorno alle undici. Spatuzza invece data la consegna qualche ora dopo e aggiunge sul luogo della consegna almeno un’altra persona (se non due). Carra metterà a verbale come, durante la consegna, lui voltò la testa per non vedere l’uomo di Arluno. Questo il motivo per il quale non riuscì a riconoscerlo in fotografia. Ma solo ne diede una ricostruzione fisica. Non lo riconosce, ma lo descrive. E alla Corte tanto basta per condannare. Nessun dubbio, nonostante all’epoca i due fratelli avessero pressoché caratteristiche simili.

Secondo la Corte, la bomba di via Palestro viene armata nel casolare di Caronno Pertusella. Qui, lo abbiamo visto, furono trovate tracce di esplosivo. Ma solo due su sei componenti e quelli meno volatili e che, dunque, potevano trovarsi lì anche da anni. Per Spatuzza, invece, tutto avviene nel cortile della villetta di Arluno. Quando rientra l’esplosivo, lui, con Marcello Tutino, va a rubare la Fiat Uno parcheggiata in via Baldinucci a due passi dal commissariato del quartiere Bovisa.

BOMBA CONFEZIONATA AD ARLUNO

Stando, dunque alla versione di Spatuzza, il confezionamento dell’ordigno avviene nel cortile della villa. Un’area mai periziata dagli investigatori. Che in quella casa analizzano solamente il garage. Eppure, anche qui, la corte si accontenta della compatibilità riscontrata nel presunto pulciaio. Solo due dei sei elementi bastano ai giudici. Il dato, inoltre, viene preso per vero nonostante non sia mai stata fatta un perizia tecnica.

Sulla compatibilità, dunque, Tommaso Formoso viene condannato all’ergastolo. La stessa compatibilità che sta alla base del riconoscimento dell’uomo di Arluno. Lo si è detto: Carra non riconoscerà mai in fotografia Tommaso Formoso. Il motivo? Semplice, almeno stando alla ricostruzione di Spatuzza: quello non era Tommaso ma Giovanni.

L’ALIBI ORA REGGE

Le stesse parole del collaboratore di giustizia, oggi, sembrano in grado di dare sostanza all’alibi che fornì lo stesso Formoso. Lo disse all’epoca e lo ripete oggi: si trovava in Calabria per l’operazione della suocera. E che lo fosse, almeno fino al 22, lo dimostrerebbe il documento di un prelievo di sangue effettuato all’ospedale di Reggio Calabria. E’ un dato, dunque, che fino al giorno prima della consegna del tritolo, Formoso non fosse in Lombardia. Da qui in poi o si crede alle testimonianze dei familiari e alle parole di Spatuzza oppure bisogna pensare a un Formoso al volante tutta la notte per coprire oltre mille chilometri ed essere ad Arluno per le undici ad attendere Pietro Carra.

Quel 23 luglio, poi, emerge un problema. L’attentato, programmato in contemporanea con quello di Roma, deve essere rinviato di qualche giorno. Proprio nella Capitale, vicino al luogo dove è prevista l’esplosione, si svolge la ‘Festa de noialtri’. Spatuzza comunica la cosa allo stesso Giovanni Formoso, il quale non la prende bene. Motivo? Il rientro dei suoi famigliari. Dice Spatuzza: “Ci sono due bombe di 150 chili, una macchina rubata, io non so se può fare lui queste confidenze ai suoi famigliari!”. Il particolare, dunque, sembra puntellare l’alibi di Tommaso Formoso.

UN’OCCASIONE PERSA

Dubbi, si diceva. Ombre, anche. Tutto scritto in una sentenza di ergastolo. L’ex killer di Brancaccio, invece, rilegge la storia. Non la cambia. Semplicemente aggiusta il quadro. Sposta le pedine: toglie Tommaso Formoso e aggiunge Marcello Tutino. L’impianto resta lo stesso. Solo porta un po’ più di luce sulla scena della strage che per stessa ammissione della Corte d’Assise di Firenze resta la più oscura. Eppure, i giudici di Brescia liquidano tutto questo e bocciano la richiesta di revisione. E le loro parole piombano in un’aula, quella della corte d’Appello di Brescia, affollata di quasi nessuno: gli avvocati, il procuratore generale, la parte civile, guardie carcerarie e un uomo nel gabbione che per ore resta fermo, lo sguardo fisso sul giudice. E alla fine, dopo il verdetto, non si scompone. Solo, da dietro le sbarre, asciuga le lacrime alla moglie e alle due figlie. La strage di via Palestro si chiude qui. Pochi minuti dopo le sei, in un tribunale deserto, in un’aria di sconforto e rabbia. Per i parenti che ci sono e sanno. Per i milanesi che non sapranno mai il vero motivo di quell’esplosione che dilaniò cinque persone e una città intera.

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