“Ho il diritto di sapere che fine ha fatto mio figlio. Ditemi se è vivo, dove si trova, come posso aiutarlo. E se è morto non abbiate pietà di me: ditemi tutta la verità, anche la più terribile per un padre. Almeno io e sua madre potremo piangere e non farci distruggere dalla speranza”. L’uomo che ci racconta la sua odissea del dolore ci pianta in asso nel mezzo di Piazza della Repubblica a Roma e si allontana per nascondere le lacrime che gli rompono la voce. Suo figlio è un desaparecido del mare, uno dei 1822 disperati morti tra le onde del Canale di Sicilia nel solo 2011, anno delle primavere arabe e della grande fuga verso l’Europa. Abbiamo visto le foto di suo figlio Karim Mbarki, una è un fotogramma tratto dal Tg5 e fissa il ragazzo seduto sul bordo di un gozzo tunisino di pochi metri dove sono stipati un centinaio di migranti. “È lui, questo è Karim”.

La barca sta attraccando a un molo, forse quello di Lampedusa, il ragazzo ha gli occhi spalancati su quel pezzo d’Europa. Accanto a lui altri quattordici ragazzi di Tunisi, tutti del quartiere El Kabaria. Quella è l’ultima immagine, da allora, 29 marzo 2011, di Karim non si hanno più notizie. “Mi hanno detto – ci racconta il padre – che dopo lo sbarco lo portarono nel centro di Manduria, sulla terraferma, in Puglia, da allora solo silenzio”.

Nackchi Amhed il 14 marzo 2011 decise di lasciare la Tunisia e di tentare la fortuna in Italia. Andò a Sfax, uno dei porti da dove partono le barche dei migranti. “Con me c’era anche mio fratello, sulla mia barca eravamo già in 47 e non c’era posto per lui. Implorai lo scafista di farlo salire su un’altra imbarcazione. In mare, di notte, la vedevo la sua barca, era davanti a me. Quando arrivammo a scorgere le prime luci di Lampedusa, i militari italiani ci dissero di dirigerci verso il porto. Ma la barca di mio fratello si fermò, cambiò direzione e puntò verso Mazara del Vallo. Erano le 11 di sera del 15 marzo 2011 e quel maledetto scafista decise di fare altre ore di mare per non farsi prendere dai poliziotti italiani. Era ricercato. Vedevo la barca di mio fratello allontanarsi, ero disperato, sapevo che da quel momento sarebbe stato solo. Non potevo più aiutarlo. È stata l’ultima volta che l’ho visto, solo dopo ho saputo che dalla barca chiamò nostra sorella col cellulare. Poi basta: quelle sono le ultime notizie che abbiamo di lui”.Nackchi ci mostra le foto di suo fratello-fantasma. Il volto è quello di un ragazzo di 25 anni, allegro, pieno di una vita che voleva rendere migliore.

LA FAMIGLIA di Ahmedben Hassine, 25 anni, si è sempre opposta al regime del dittatore Ben Alì e della sua voracissima tribù di familiari, notabili e cortigiani. Hassine, ingegnere tessile, fin dai tempi dell’università è un attivista politico. Viene arrestato e torturato dai miliziani di Ben Alì. “Gli hanno distrutto la vita”, racconta il fratello. “Per questo anche noi familiari lo convincemmo a fuggire e a tentare di arrivare in Europa”. Il 9 novembre 2010 il giovane ingegnere tessile, insieme con altri cinque attivisti dell’opposizione della zona di Biserta, si imbarca su un fuoribordo di sei metri, il 13 arrivano sulla costa di Lampedusa, qui vengono identificati e poi trasferiti a Porto Empedocle. “Una nostra amica italiana – continua il fratello – è andata a cercarlo, la polizia italiana non le ha dato notizie. In compenso l’hanno fermata e identificata. Io sono stato arrestato dalla polizia tunisina. Sono certo che mio fratello è vivo, ma nessuna autorità è in grado di darci notizie precise. Le ultime cose che sappiamo di lui sono di mesi fa, quando ci hanno detto che era stato portato nel carcere di Caltanissetta. Da allora è il buio più completo”.

Storie di disperazione che Rebeh Kraiem, tunisina di Kerouan immigrata in Italia, ha messo insieme in un dossier e che sono al centro della sua battaglia. “Le famiglie di questi ragazzi sono disperate – ci dice – e hanno il diritto di sapere. Lo scorso 19 aprile nel quartiere di El Kabaria una mamma si è data fuoco per protesta perché da mesi chiede notizie sulla sorte del figlio partito su una barca per Lampedusa”. Rebeh ha raccolto foto e storie dei desaparecido, dopo mesi di sit-in sotto l’ambasciata tunisina e i consolati di Palermo e Roma ha avuto le impronte digitali degli scomparsi. “Tutti quelli che erano su una barca con 47 persone e su un’altra che ne portava 67. Vogliamo che le autorità italiane si sveglino e ci diano risposte perché non è possibile che in un Paese civile come l’Italia si possa sparire così”. Quando chiediamo a Rebeh se l’ambasciata tunisina la sta aiutando, ci risponde con una smorfia: “Ci hanno respinto. Le vostre facce non ci piacciono, questo ci hanno detto”.

I FAMILIARI dei desaparecido non sono soli, ieri l’Arci ha presentato una denuncia contro ignoti per la scomparsa di 270 migranti, sottolineando la mancanza di risposte delle autorità tunisine e di quelle italiane. Intanto Rebeh srotola il suo striscione di protesta in Piazza della Repubblica. A terra espone le foto degli scomparsi. Ahmed, Karim, Abel… spariti nel mare di un’Europa indifferente.

Articolo Precedente

Zanardo: “Vanessa e il femminicidio in Italia: scriviamo a Napolitano”

next
Articolo Successivo

Entrare in carcere

next