Nicolas Sarkozy e Francois Hollande

Mai come stavolta i candidati a una presidenziale francese stanno facendo visita alle fabbriche del Paese. E una novità di questa campagna, altrimenti sottotono e poco coinvolgente, è proprio l’attenzione data finalmente al futuro del made in France, ai problemi della delocalizzazione. Anche alle piccole e medie imprese.

Sì, perché non è che l’industria francese sia morta. Grazie al sostegno di uno Stato decisionista e di una politica industriale di grandi ambizioni, Parigi è riuscita a creare alcuni campioni a livello mondiale in certi settori, come il nucleare (Edf e Areva), il petrolio (Total) o l’aeronautico (Airbus). Tutti gruppi molto grossi, vere e proprie multinazionali. I politici, invece, hanno dimenticato le Pmi, soprattutto quelle del manifatturiero. Che, attualmente, genera appena il 14% del prodotto interno lordo, contro il 23% in Italia e il 30% in Germania.

E’ una strada che in molti casi, a partire dagli anni Novanta, è stata imboccata consapevolmente, come una battaglia contro il «vecchio». E’ come se tutti i francesi potessero lavorare nei servizi o come tecnici della biotecnologia o dei nuovi settori industriali ad alto contenuto tecnologico, giustamente finanziati dalle casse pubbliche, ma che da soli non potevano compensare le perdite occupazionali dell’industria manifatturiera. Questa, ancora dal 2008 a oggi, ha visto il taglio di altri 100mila posti di lavoro. Intanto la disoccupazione è levitata (sfiora adesso il 10%). E soprattutto è cresciuta l’occupazione part-time e di scarsa qualità, comunque malpagata.

Altro effetto negativo del trend: il 2011 è stato archiviato con un deficit record della bilancia commerciale (70 miliardi di euro). Il deterioramento è avvenuto sul lungo periodo e in pochi, a dire il vero, hanno suonato il campanello d’allarme. Fra il 2000 e il 2010 la quota dell’export della zona euro alimentata dalla Germania è cresciuta di 3,6 punti percentuali. Intanto quella dell’Italia è calata del’1,8. Ma per la Francia la riduzione è stata addirittura del 3,5, il Paese con la flessione più importante. Al di là degli attuali problemi di Parigi sui mercati finanziari e lo spread che anche per gli Oat, i titoli di Stato francesi, si allarga inesorabilmente nei confronti dei Bund, è proprio la crisi industriale a preoccupare di più riguardo a un Paese, che altrimenti dispone ancora di un’amministrazione pubblica relativamente efficiente. E di un problema di debito pubblico oggettivamente inferiore all’Italia e alla Spagna.

Aver lasciato il manifatturiero e le sue piccole e medie aziende al loro destino ipoteca fortemente il futuro, dal punto di vista dell’occupazione e anche della capacità di ridurre i divari sociali (le Pmi possono rappresentare un volano importante di ascesa da questo punto di vista). Significa, inoltre, che i maggiori vantaggi del boom attuale del lusso made in France, uno dei settori che resiste alla crisi, ricadono, almeno per i posti di lavoro, principalmente su Paesi come l’Italia, dove in effetti moda, scarpe e borse «made in France» vengono fabbricati. Significa che se in Germania sono attive adesso 150mila macchine utensili e in Italia 64mila, in Francia ne restano appena 34mila. E ogni giorno ne vengono spente per sempre. E vendute al miglior offerente rumeno o tunisino.

Che fare? I candidati alle presidenziali alcune ricette possibili le stanno illustrando. Il socialista François Hollande vuole proporre un tasso d’imposizione per le piccole e medie imprese più basso che per le altre. E inoltre, sempre se verrà eletto, intende obbligare l’imprenditore che vuole chiudere ed eventualmente delocalizzare a trovare un acquirente del sito produttivo in Francia. Nicolas Sarkozy punta alla cosiddetta Iva sociale: come dire, trasferire una parte dei contributi sociali, che le aziende devono pagare, sui consumatori, mediante un aumento dell’Iva (che sarebbe generalizzato, ma che avrebbe un ritorno positivo solo per i fabbricanti francesi e non per quelli dei prodotti importati). Quanto al candidato centrista François Bayrou, il primo a mettere l’accento in campagna sullo slogan «produrre in Francia», propone l’introduzione di un marchio che indichi per ogni prodotto addirittura la quota di fabbricazione francese. Tutto bene. Ma forse non è troppo tardi?

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