La rapida risalita degli spread mette fine alla “strana” politica economica brancaleonesca costruita su proclami solenni, ma risoltasi in ritirate umilianti. Un governo affrancato dal dovere del bacio alla pantofola elettorale di lobbies e santuari del consociativismo ha finito per seguire il richiamo della foresta partitico cui sono sensibili i burocrati, accademici di corte e boiardi che ne fanno parte.

Nei mercati si insinua la convinzione che la zattera dei conti pubblici italiani abbia ripreso la deriva tremontiana in un mare di nuovo tempestoso, dopo la schiarita propiziata dalle massicce operazioni della Bce. A parte le pensioni sugli altri fronti, dalle liberalizzazioni alla riforma del diritto del lavoro, tutto rimane sostanzialmente inalterato (o peggiorato). Per la crescita, e quindi la sostenibilità del debito, è imperativo un big bang di riforme che frantumi le aspettative negative: dalla giustizia alle professioni, dall’assegno di disoccupazione alle dismissioni di manomorta pubblica, dai tagli alle spese parassitarie (che alimentano le cricche) alla diminuzione del cuneo fiscale sul lavoro. Insomma vanno ripristinati gli incentivi ad investire e ad assumere. Invece un Giarda dai toni mesti annuncia che persino la sbandierata spending review finirà in una bolla di sapone per paura di pestare i calli a qualcuno.

Uno spread di 400 ad aprile 2012 vale quanto uno spread di 800 ad agosto 2011 perchè ingloba gli effetti della droga monetaria della Bce. I risparmiatori lo sanno e ne traggono le conseguenze.

Il Fatto Quotidiano, 12 Aprile 2012

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