Province e poltrone in Sardegna. Tradotto: casta. Qui il 6 maggio, gli elettori saranno chiamati a votare 10 referendum regionali. Cinque riguardano proprio gli enti intermedi: quattro sono quesiti abrogativi che chiedono l’eliminazione di altrettante leggi regionali che riguardano l’istituzione, arrivata nel 2004, di quattro nuove province: Olbia-Tempio, Ogliastra, Medio Campidano e Sulcis-Iglesiente. Con altrettanti presidenti, giunte, consigli e uffici di corredo. Un quinto quesito, solo consultivo, propone addirittura la cancellazione di tutte le altre quattro, le province cosiddette “storiche”:Cagliari, Oristano, Nuoro e Sassari. E poi si chiede la riduzione dei consiglieri regionali da 80 a 50, far piazza pulita dei consigli di amministrazione degli enti regionali, l’elezione diretta del presidente della Regione, con l’obbligo delle primarie per tutte le coalizioni e la creazione di un’assemblea costituente per un nuovo Statuto sardo, tutti quesiti solo consultivi. A cui si aggiunge un altro abrogativo, molto popolare, sulla legge che fissa status e indennità dei consiglieri regionali.

Ma al primo posto restano sempre le province, vecchie e nuove: otto per un milione e 600mila abitanti, con il primato della più piccola d’Italia: Ogliastra, due capoluoghi e solo 58mila residenti. I promotori fanno capo a un Movimento referendario promosso da un partito, Riformatori sardi, ma che raggruppa esponenti trasversali: dal Pd alla Destra, fino a Sel passando per l’Udc di cui fa parte Umberto Oppus, primo cittadino di Mandas e direttore dell’Anci Sardegna (Associazione nazionale comuni italiani). E infatti tra i sostenitori, che in circa un mese e mezzo hanno raccolto 30mila firme, ci sono in prima fila tanti sindaci anche di piccoli e piccolissimi comuni: da Ballao a Bortigiadas, da Seulo a Escolca.

Una referendum anticasta, dunque. Anche se la definizione non piace tanto al leader del Movimento referendario Pierpaolo Vargiu (consigliere regionale dei Riformatori sardi). Vargiu è convinto che l’idea possa essere esportata al di là del Tirreno, fatte le dovute eccezioni, perché “attualmente la politica gode di una scarsissima popolarità, c’è bisogno di sobrietà. In questo modo la parte intelligente degli amministratori può rispondere a chi usa la bandiera dell’antipolitica che rischia di prendere il sopravvento in un momento di crisi terribile soprattutto per la Sardegna ma anche per il resto d’Italia dove le persone sono disgustate dagli sprechi e dalle spese inutili”. E continua: “La nostra è citata come regione canaglia per i costi della politica istituzionale. Abbiamo 8 province, 80 consiglieri regionali tanti quanto la Lombardia che ha però otto volte i nostri abitanti. Per non parlare dei cda degli enti dove si riciclano le seconde fila della politica. E le stesse province sono piccoli centri di potere, anche economico. Si sa…”.

In realtà il Consiglio sardo a ottobre ha già provato a tagliare gli scranni: da 80 a 60. È stata approvata una legge che per diventare esecutiva, dovrà passare al vaglio dei due rami del Parlamento, visto che si tratta di una revisione costituzionale che modifica lo Statuto sardo, a inizio marzo ha ricevuto l’ok della Commissione Affari Costituzionali del Senato. E in ogni caso anche per le province la cura dimagrante è già stata decisa dal governo Monti e in Sardegna il testo di riforma necessario per l’adeguamento è stato approvato dalla commissione regionale Autonomia. Si prevede il commissariamento degli enti intermedi, in linea con il resto d’Italia, con l’incongnita provincia Cagliari già amministrata dalla vice presidente facente funzioni, Angela Quaquero, dopo la decadenza a fine dicembre del presidente Graziano Milia (Pd) in seguito a una condanna per abuso d’ufficio da parte della corte di Cassazione per una vicenda legata al periodo in cui era sindaco di Quartu Sant’Elena.

Sull’estensione dei referendum anti-casta al resto d’Italia nutre molti dubbi il professor Paolo Caretti che insegna Diritto costituzionale all’Università di Firenze: “I quesiti consultivi hanno, come sempre, un valore soprattutto politico, di pressione. Diverso il caso di quelli abrogativi: dipende tutto dalle competenze specifiche che in Sardegna ci sono visto che sono stati già stati dichiarati ammissibili questi quesiti”. E aggiunge: “Nelle regioni a statuto ordinario la creazione e la soppressione delle province è una competenza dello Stato, così come è scritto nella Costituzione. Non si può pensare di fare un referendum così per fare e disfare, ci sono procedure speciali: la Regione Toscana, per esempio, non potrebbe chiedere la cancellazione della provincia di Prato, istituita dieci anni fa dallo Stato”. Tecnicamente, quindi, resta una questione locale: “Non è nemmeno certo- spiega infine Caretti- che nelle altre Regioni a Statuto speciale si possa procedere, dipende dai rispetti ordinamenti e pure dalle leggi attuative”.

Sul piede di guerra i presidenti delle province, vecchie e nuove. A suon di carte e di conti. Due settimane fa l’Ups (Unione province sarde) guidata da Roberto Deriu, presidente della provincia di Nuoro, ha impugnato davanti al Tar il decreto con cui il governatore Cappellacci ha indetto i referendum. Secondo i legali delle province le leggi che stanno alla base della loro istituzione non possono essere abrogate via referendum e, non solo, il decreto sarebbe illegittimo perché adottato in forza di una legge (n. 20 del ’57) che si basa sull’art. 32 dello Statuto sardo, che ormai non esiste più, cancellato dalla legge costituzionale 2 del 2001. “Per questo- ha spiegato Deriu- viene meno la base giuridica”. Per Vargiu e i sostenitori del Movimento referenderario si tratta solo di “Paura del voto. Con il referendum mettiamo la penna in mano a chi tutti i giorni si lamenta per strada o sul web, via Facebook”.

Le province non mollano e dopo il ricorso agli avvocati hanno anche presentato un dossier sui costi delle poltrone e un confronto tra Regione e Province. Una vera lotta per la sopravvivenza insomma. Secondo i dati presentati da Deriu lo sperpero di denaro pubblico è in gran parte della Regione che costerebbe 104 milioni di euro l’anno tra giunta (dodici assessori più il presidente) e ottanta consiglieri. Mentre le Province sarde, con otto presidenti, 58 assessori e 204 consiglieri si fermano a 6,5 milioni. Inoltre secondo l’Ups con il trasferimento di competenze dalla Regione alle Province c’è stato un risparmio di 32,5 milioni di euro, mentre con lo svolgimento di funzioni delegate o trasferite dallo Stato si sono tagliati 47,5 milioni. Ma il punto su cui si battono i promotori del referendum è l’utilità degli enti intermedi le cui spese, comunque, vanno per il 70 per cento a coprire spese correnti, secondo uno studio realizzato dalla Bocconi sempre per l’Ups. Si occupano soprattutto di strade e edilizia scolastica: ma è in dubbio soprattutto la percezione del cittadino. “Le competenze, poi- insistono ancora dal Movimento pro referendum- potrebbero essere distribuite tra comuni associati per area, come già succede per la gestione dei rifiuti in alcune parti della Sardegna”.

Ma il vero problema, come sempre, sarà il quorum. Tranne per il nucleare da più di dieci anni nell’isola i quesiti referendari non riescono a raggiungere la soglia di validità pari al 33,3 per cento, un terzo degli aventi diritto. Qualche giorno fa è poi saltata l’ipotesi di accorpamento con le elezioni amministrative in 65 comuni, che saranno il 20 e 21 maggio: un’occasione persa, anche secondo il presidente della Regione Cappellacci. Niente election day, dunque, un solo giorno di voto al posto di due, oltre al traino mancato. In consiglio regionale il gruppo misto si è messo di traverso all’apposito disegno di legge: “Lo scorso anno per il nucleare la legge è stata fatta in venti minuti- dice Vargiu del Movimento referendario- ma questa volta non c’è stato nulla da fare e si spendono due volte soldi pubblici. La gente andrà comunque a votare, ne sono convinto”. Staremo a vedere. Nel 2003, anche in quel caso a maggio, in Sardegna, per la consultazione sulle nuove province si era raggiunto uno scarso 15,77 per cento. Nel frattempo dal presidente Deriu arriva la promessa di un’operazione-trasparenza: “Presto on line tutti gli stipendi della provincia di Nuoro, una sorta di anagrafe degli eletti” e nella provincia del Sulcis-Iglesiente, terra di disoccupati e cassintegrati a febbraio hanno già tagliato le retribuzioni dei dirigenti: una media del 23 per cento sul massimo contrattuale di 45mila euro l’anno. Si salvi chi può, insomma.

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